22 febbraio 2013

Oggi, Umberto D

Ho mostrato ancora una volta Umberto D, il noto film di Vittorio De Sica uscito in sala nel 1953. La seconda legislatura, cioè la prima a maggioranza democristiana, non aveva affatto risolto i problemi più urgenti dell'Italia, tra cui la svalutazione vertiginosa della lira. Calcolando in breve il valore della moneta nel 1952 (anno di ideazione e e stesura della sceneggiatura di Cesare Zavattini) coi coefficienti annuali di rivalutazione monetaria, ci si accorge che il valore della moneta in corso è la metà rispetto al 1945-46 (fine della guerra), un ventesimo rispetto al 1943 (passaggio al fronte alleato, occupazione tedesca), e meno di un quarantesimo rispetto al 1940 (entrata dell'Italia in guerra).

Il povero Umberto Domenico Ferrari, che probabilmente contava di godere gli anni del meritato riposo da dipendente ministeriale in piena autonomia e indipendenza, s'è trovato bloccato nella camera a pensione in affitto per poter lavorare e risparmiare senza nemmeno (quasi) i soldi per la mensa dei poveri (un grazie a Paolo Giatti per la nota di storia economica). Nelle sue condizioni ci sono tutti i pensionati in protesta, che chiedono un aumento del 20%. Il corteo non è autorizzato: le autorità hanno negato il permesso e quindi il Corpo della Celere disperde anche quelli che sembrano pacifici vecchietti (altro che Black Blocs!) che vivono in camere in affitto perché, abbandonato il loro luogo d'origine per seguire l'impiego a Roma, poi non sono riusciti a risparmiare a sufficienza per potersi permettere una casa loro (e la guerra aveva poi fatto il resto).

Ogni volta che rivedo Umberto D ho paura, perché riconosco sempre più da vicino i segni della crisi del presente. So di gente che, perso il posto di lavoro, dopo un anno di disoccupazione è finita alla mensa della Charitas (e molti dei gestori segnalano che ai loro servizi si presentano sempre più famiglie). L'orologio che Umberto Domenico Ferrari cerca di vendere ("tic-tac tic-tac tic-tac...") oggi potrebbe essere un telefonino cellulare magari di penultima generazione, appena meno smart degli ultimi modelli. Un bene di lusso? Non so, visto che in Italia per qualsiasi lavoretto bisogna essere disponibili sull'unghia, nel giro di poche ore: per non perdere un'opportunità da cento euro, bisogna averne spesi almeno duecento, altrimenti non ci si salva dalla fame. La reperibilità dev'essere continua e ininterrotta, come la lubrificazione della sega circolare per casseforti secondo il Maestro Dante Cruciani (Totò) ne I soliti ignoti (1958, regia di Mario Monicelli).

L'Italia del dopoguerra sapeva arrangiarsi e ha avuto modo di ricostruirsi. Quella di oggi teme, con santa ragione, di dover tornare ad arrangiarsi: in altre parole, si è tornati indietro di sessant'anni. La guerra c'è stata, anche senza le bombe: è bastata la finanza, a togliere dal mercato effettivo somme ingenti di denaro, che ora non fanno altro che moltiplicare se stesse senza produrre niente (e Marx non l'aveva messo in conto). E in effetti è proprio la vecchia arte di arrangiarsi, cioè di arrabattarsi a qualunque costo, con la fiducia fatalista che qualcosa capiterà e che si andrà oltre il punto di non-ritorno-alla-miseria, che propone la solita storia di successo inaspettato di un "creativo" italiano (uso le virgolette perché nel dizionario c'è solo l'aggettivo, ma non so che cosa usare). Riassumiamola così: dopo centinaia di no e di porte in faccia, il designer Matteo Di Pascale ha trovato qualcuno in Olanda che ha ascoltato la sua idea di una serie di carte da gioco simboliche per stimolare il pensiero. Adesso, con la collaborazione di un amico di Matteo residente in UK-US, l'idea è su un sito di ricerca fondi; se qualche finanziatore ci mette del suo, il progetto va in porto. L'articolo conclude: "Voi che leggete, cosa aspettate?"

Ma che cosa vuoi mai che aspettiamo? Aspettiamo un po' di rispetto. Aspettiamo, e ci aspettiamo, che il potere non faccia prediche, ma gestisca ragionevolmente le risorse reali nel nostro interesse. Aspettiamo, e ci aspettiamo, un giusto riconoscimento della nostra operosità. Non vogliamo sfondare e avere fama mondiale: vogliamo arrivare con dignità alla fine del mese, come sta scritto peraltro nell'articolo 36 della costituzione.  Soprattutto, checché ne dicano i teorici del post-moderno, non ci sentiamo affatto obbligati a vivere di spinte bipolari, col prossimo colpo di telefonino cellulare che con un sì o con un no ci dice se abbiamo da mangiare la sera e il giorno dopo. Vorremmo aver fatto qualche passo avanti, rispetto al 1946.

Curioso: Arrangiatevi! era anche il titolo di un film diretto da Mauro Bolognini nel 1958, in cui una famiglia affittava un appartamento che fino a poco prima ospitava una casa di tolleranza. Il più, per la madre di famiglia, era far capire al vicinato che ora occupava l'immobile gente onesta e proba. È celebre il discorso finale di Totò, nonno della famiglia, dal balcone di casa: "Piantiamola con queste nostalgie! (...) A voi italiani è rimasto questo chiodo fisso qui! Toglietevelo! Arrangiatevi!". Parlava delle case di tolleranza, chiaro. Ma oggi di che cosa parlerebbe? Della (relativa) sicurezza del posto di lavoro? Di un avvenire sicuro e prevedibile? Di un minimo di stabilità familiare e sociale? Lo sapremo la settimana prossima. Forse.

18 febbraio 2013

Peccati di gioventù e di vecchiaia

Correva l'inverno 1991-92, quello di Tangentopoli e io ero appena ritornato dagli Stati Uniti. Anche se già ero laureato, ogni lunedì seguivo un corso di letteratura inglese e uno di letteratura angloamericana all'Università di Padova. Partivo alle sei e dieci da Bondeno e alle sei e mezza da Ferrara, dopo essere passato in edicola a comprare il Corriere della Sera (il lunedì non usciva Repubblica) e Cuore, il settimanale satirico in carta verde. Di solito leggevo prima il Corriere e poi ridevo con Cuore; ma ogni tanto era il tono falsamente conciliante del Corriere a farmi ridere, specie quando l'assurdo di Cuore si rivelava più vicino alla realtà (e capitava sempre più spesso).

Un mattino, però, avevo un bel po' di sonno e salii sul treno per Padova con la ferma intenzione di dormire. Un ragazzo di Ferrara che conoscevo dai viaggi frequenti (che chiamerò Marcello, anche se aveva un altro nome) era invece sotto esame e doveva ripassare. Quindi prendemmo posto: Marcello si mise seduto secondo la direzione del treno ("in spinta") per potersi concentrare, e io di fronte ("in tiro") per addormentarmi. Ci andò liscia fino alla stazione di Rovigo, quando salirono a bordo due ragazzotte chioccianti e rumorose, decisamente brutte e dalle chiome martoriate dalle parrucchiere di Loreo o di Contarina, che in tono fastidiosamente squillante si scambiavano le cronache del sabato e della domenica: fidanzati, famiglie e ricette di cucina. Per me e Marcello diventava difficile farci gli affari nostri.

Poi, poco dopo Monselice, il miracolo accadde. Una delle chioccianti chiese all'altra: "Mi dai la ricetta delle meringhe?". L'altra sciorinò la lista degli ingredienti da mescolare nella terrina e li suggellò in un crescendo finale: "e monti, monti, monti, monti, monti fino a che non viene duro!". Marcello mi guardò sorridendo e io, pur tappandomi la bocca, non riuscivo ad attutire i forti colpi al diaframma delle risate. Sobbalzavo facendo finta di star male, ma le chioccianti capirono subito e zittirono all'istante. Poco prima della curva a destra prima della stazione di Padova, ruppi il silenzio io: "Che cosa danno al Comunale adesso?" Marcello andava spesso a teatro e cominciò a commentare.

La nostra risata (mia, soprattutto) era piuttosto maliziosa e volgare e forse anche un po' classista. Per quelle povere ragazze eravamo due bellimbusti borghesi dediti a deridere il prossimo; due vitelloni da film di Fellini, insomma. E forse avevano ragione. Però noi non ci eravamo nemmeno rivolti a loro; approfittammo solo di un loro punto debole per ridere tra di noi e lasciarle con grande naturalezza nella vergogna della loro figuraccia. Ci stettero male per un po' e noi ci ritenemmo vendicati del chiasso che avevano fatto entrando nello scompartimento e distogliendoci dalle nostre occupazioni. Era solo ironia, in fondo.

Oggi fanno passare per ironia la domanda disgustosa e offensiva del solito vecchietto bavoso alla giovincella che lo presenta al comizio: "Lei viene?" Non mi amareggia tanto la domanda in sé, che è solo un'odiosa fesseria, quanto la platea beota che sorride e apprezza e l'interlocutrice che sta al gioco quando avrebbe potuto mettere a posto il noto vecchietto con un'arguzia ben assestata, come capita nell'intera sesta giornata del Decameron di Boccaccio; basterebbe leggere. Ma si sa: i tempi cambiano. E in peggio.

In quei lunedì di ventun anni fa, col Corriere della Sera e Cuore l'uno di fronte all'altro, immaginavo che prima o poi il teatrino della politica sarebbe finito in farsa. Le battute ciniche e crudeli di Giulio Andreotti si sono trasformate in quelle prepotenti e offensive di Silvio Berlusconi, il professore di diritto Giuliano Amato in rappresentanza di Bettino Craxi nel professore di economia Mario Monti in rappresentanza del Club Bilderberg, il clericale in grisaglia Forlani nel clericale in loden verde Casini, mentre il duo Occhetto-Martinazzoli (il tenace e il pensoso) s'è fuso nel maestro Zen Pier Luigi Bersani, che per me resta ancora il più simpatico, anche nel senso etimologico della parola: quello che ha più sensibilità per gli altri. E il talento comico migliore di allora, Beppe Grillo, ora è una lista elettorale; c'era da aspettarselo.

"Ragazzi, siam pazzi? Non siamo mica qui ad asciugare gli scogli..." Pier Luigi, mi sei simpatico e ti voto, certo, ma in verità io ho proprio l'impressione di asciugare gli scogli, di smacchiare il manto dei leopardi, di andare con l'innaffiatoio e l'ombrello nelle Foreste dell'Amazzonia, di fare il parmigiano col latte di soia, di fermar l'acqua con le mani... "Perché se piove, piove per tutti." Già: son ventun anni che diluvia.

10 febbraio 2013

La cassetta di Charlie Brown

La conosciamo in tanti: è la cassetta postale di Charlie Brown, vuota e con la ribalta aperta. Lui è di fronte, con un'espressione delusa, ma non sorpresa, come se si trovasse di fronte all'ennesima riconferma delle sue aspettative: San Valentino arriva e nessuno gli scrive. Tra una nevicata e l'altra, il 14 febbraio si avvicina e quasi di sicuro Charlie Brown si ritroverà ancora solo di fronte alla cassetta vuota. Tranquillo, vecchio amico Charlie! Se è per questo, nessuno ha mai scritto nemmeno a me e non me ne sono mai fatto un cruccio.

Come chi legge le mie storielle già sa, ho una cassetta postale identica, bianca, col numero 421 stampato in nero. Mi dà un certo senso di casa, anche se dentro ci trovo quasi sempre solo pubblicità, richieste di fondi di associazioni, bollette da pagare e, di recente, il plico delle schede elettorali per la Circoscrizione degli Italiani all'Estero-Nord America; non so che cosa mi metta più tristezza. Rari i biglietti e le cartoline, che però fanno sempre piacere, anche se, nell'era dell'informatica, si sono ridotti al punto tale da togliere un giorno di lavoro ai postini: niente più consegna al sabato.

Qualche anno fa ricordo che le cassette postali americane erano diffuse anche a Ferrara e provincia, anche se pochi avevano idea della funzione della bandierina rossa a lato. Contrariamente a quello che pensano molti, non serve per segnalare se c'è posta in entrata, magari evitando di uscire con la pioggia. No, qui siamo tutti seri (Anonima Banchieri, dicevo) e puritani e quindi non si fa certo gli schizzinosi per un po' di fango (visto che, col disgelo, a marzo ci affonderemo fino al ginocchio). Serve invece per segnalare la posta in uscita: si affranca la busta, si mette nella cassetta e si alza la bandierina rossa per fermare il postino che la ritira e, se ne ha, mette nella cassetta la posta in entrata.

Plichi e plichi in entrata, qualche busta affrancata in uscita: la vita si riduce a ben poco e non ci si fa più caso. Anche sepolti sotto la neve, si sopravvive, anzi: "L'inverno ci tenne al caldo, coprendo la terra in una coltre d'oblio, nutrendo una minima vita di tuberi secchi" (Eliot). Poi, quando il sole batte, tutti fuori: due spalate di neve e ci si riscalda. E basta aspettare le ombre delle quattro del pomeriggio e anche d'inverno l'animo si sgela (no, caro Montale, siamo senza limoni, qui).





09 febbraio 2013

La neve, là fuori...

Sono barricato in casa. Ieri pomeriggio, ho appena fatto in tempo a ritirare la macchina dal carrozziere (lunedì della settimana scorsa un imprudente mi era entrato nella fiancata sinistra a uno stop mal rispettato: il cambio automatico diffuso qui fa brutti scherzi) e a fare un minimo di spesa prima di dovermi togliere di strada definitivamente alle quattro, per ordinanza comunale. Da due giorni si aspettava la grande tormenta di neve, che finalmente s'è rovesciata su di noi ieri alle due. Eravamo tutti sull'attenti, pronti a far scorta di cibo in scatola per giorni, temendo un black-out simile a quello durato dieci giorni nell'ottobre del 2011, sempre a seguito di una forte nevicata imprevista.

Per la verità, la tormenta in corso non farebbe batter ciglio a nessun bellunese o bolzanino. Ne son scesi settanta centimetri buoni e forse tra oggi e domenica si sfiorerà il metro, ma in qualsiasi paesino delle Dolomiti sarebbero tutti allegri e darebbero il benvenuto ai turisti sulle piste da sci. Qui invece si dichiara lo stato di emergenza: qui son tutti seri (del resto c'è l'Anonima Banchieri, come diceva Buscaglione in Ciao, Joe).

Non ci sono stati danni alla rete elettrica comunque, ed era da prevedere. In pieno inverno, gli alberi spogli non trattengono tanta neve da spezzarsi e cadere sui fili della corrente (che non s'è ancora pensato a interrare). Perciò la gente ha preferito far scorta di cibo e prendersela comoda, anticipando i festeggiamenti del venerdì sera. Hanno infatti fatturato cinque volte tanto le bottiglierie. Io stesso, prima del coprifuoco, in coda alla Spirit Haus per poter accompagnare il trancio di tonno a cena con un sorso di bianco, ho visto la gente far razzia. Davanti a me, un tizio acquistava in un colpo solo ventiquattro lattine di birra, una bottiglia grande di whisky e due bidoni (in pratica) di misto per cocktail. "Vuole una sporta?" "No, ma se può aiutarmi a caricare la macchina..." "Oh, sì, volentieri..." Me l'aveva detto anche il carrozziere: "Ho il frigo pieno di Heineken e sto tranquillo".

Io non sono andato oltre il bicchiere di bianco a cena (ma i vicini al piano di sopra caricavano due casse di birra) e il caffè caldo di stamattina. E guardo la neve là fuori che, ammucchiata a dune dal vento, ha già sepolto tutte le automobili. E apro Tutte le poesie di Umberto Saba (a cura di Arrigo Stara, Milano, Mondadori, 1988) a pagina 433:


NEVE

Neve che turbini in alto ed avvolgi
le cose in un tacito manto,
una creatura di pianto
vedo per te sorridere; un baleno
d'allegrezza che il mesto viso illumini,
e agli occhi miei come un tesoro scopri.

Neve che cadi dall'alto e noi copri,
coprici ancora, all'infinito. Imbianca
la città con le case e con le chiese,
il porto con le navi (...)


Fra poco dovrò raggiungere il mio vicino che, cosa nuova, s'è messo a spalare con vigore; di solito lo faccio io. Ma per un attimo rimango qui da me, dove "non si sente altro che il caldo buono" (l'ho fregata a Ungaretti, che non me ne vorrà). Per il momento, conviene accontentarsi di poco: vino, caffè, noci, poesie...