22 febbraio 2015

La piazza vista da lontano

Ieri, nella piazza centrale di Bondeno di Ferrara, dove sono nato e cresciuto, c'è stata una manifestazione di Forza Nuova contro il progetto di costruzione di una nuova moschea. Ovviamente, non c'ero e di regola dovrei starmene zitto; ma c'è chi ha parlato di piazza militarizzata. Non penso sia il caso di arrivare a tanto. Se prendo la parola, è perché in oltre vent'anni di residenza negli Stati Uniti, credo di avere una certa esperienza dell'Altro: l'ho incontrato e, soprattutto (e dolorosamente, a volte),  lo sono stato. Forse la mia testimonianza può servire.

Quando sono arrivato, nel 1993, ero un immigrato di lusso. Non avevo la valigia di cartone, ma il contratto del dottorato e il dizionario e la grammatica italiana (avrei dovuto insegnare) e sapevo piuttosto bene l'inglese (salvo qualche comico bisticcio d'uso corretto col tempo). Ero però pur sempre un immigrato, venivo da fuori e dovevo imparare le regole locali del vivere; ed erano tante, a volte palesi e a volte oscure: le aspettative sul lavoro, la distanza di almeno di un metro circa da tenere con gli interlocutori, il significato di certe parole o di certe figure nel discorso comune e tante altre. Perciò ho fatto fronte a tante incomprensioni, a volte anche gravi. Ho avuto bisogno di tanta buona volontà, di tantissima pazienza e dell'aiuto di amici intelligenti che mi hanno saputo consigliare. Non è stato facile e, ripeto, io sono tuttora un immigrato di lusso.

Peraltro, non ero né sono il solo immigrato qui, visto che, specie negli ambienti universitari, ci si trova un po' da tutto il mondo: cinesi (almeno cinque colleghi), giapponesi (il collega di fisica al college), coreani (la famiglia vicina di casa), e al caffè centrale ogni tanto mi intrattengo con Nariman Mostafavi, studente del dottorato di ingegneria dell'ambiente ed ex-attivista politico in Iran. Non ho visto la moschea, ma so dov'è la sinagoga. Come facciamo? Osserviamo le regole istituzionali che la società si dà: il rispetto personale, il senso della riservatezza, la decenza quotidiana, la correttezza sul lavoro e nel rapporto con gli altri ecc. All'interno di queste regole di massima ognuno si esprime come può e si misura con l'altro. Conflitti di culture non ce ne sono proprio (anzi, dice giustamente Nariman, la formazione americana ha spinto tanti giovani iraniani a voler cambiare il proprio paese in senso liberale).

No, non voglio proporre questo modello come ideale, in primo luogo perché si fonda su una cultura sostanzialmente più debole delle tradizioni popolari italiane; e poi, non credo che il liberalismo globalizzato sia la soluzione di tutti i problemi sociali (anzi, porta spesso a delle aggravanti che sarebbe canzone lunga discutere). Resta però, questo sì, il valore del rispetto delle istituzioni e delle regole del vivere, che credo sia possibile anche in Italia. Ho conosciuto tanti giovani (ragazze, soprattutto) di famiglie arabe che parlavano un italiano curato e si esprimevano con grande proprietà; e li ho conosciuti in biblioteca, a Ferrara e anche a Bondeno, dove leggevano e si documentavano. Peraltro pare che tra le letture più diffuse tra gli immigrati in Italia ci siano Se questo è un uomo di Primo Levi e Il fu Mattia Pascal di Pirandello: come sopravvivere in un ambiente ostile e che cosa capita a uno che vuole inventarsi un'altra identità in un altro luogo e senza documenti. Inoltre, mi raccontava anni fa Amara Lakhous, l'autore di "Scontro di civiltà in un ascensore di Piazza Vittorio", proprio il contatto con l'Italia ha portato una buona parte dell'Islam su posizioni moderate.

Ora invece parlo da professore (perché dopo vent'anni all'estero potrebbero nascere dubbi sulla mia italianità, ma non sul mio mestiere): la cultura italiana ha in sé tutte le risorse necessarie per consolidarsi istituzionalmente e darsi come punto di riferimento essenziale sia per chi è nato e cresciuto nel paese sia per chi viene da fuori. C'è però bisogno di una scuola eccellente, di una lingua italiana corretta e curata anche (soprattutto!) nei mass-media, di una politica culturale forte anche a livello locale (e parlo di cose serie, non di mascherate). Questo è almeno parte di quanto gli italiani dovrebbero ESIGERE dai loro rappresentanti al potere; se non è stato fatto, è GRAVISSIMO e le conseguenze funeste non tarderanno ad arrivare.


Mi si permetta un altro paragone con gli Stati Uniti. Io abito nel New England, che è la regione nord-orientale, una delle più fredde, ma anche una delle più colte: cinema, teatro, musica e incontri letterari non mancano. Gente da tutto il mondo convive tranquilla. In altre zone, dove le istituzioni culturali latitano, gli scontri razziali e gli omicidi sono all'ordine del giorno. Chiaro, la cultura non è il solo fattore; ma ha un suo peso non trascurabile. Se in Francia, dopo l'eccidio, hanno detto "Je suis Charlie Hebdo" è perché dietro i fumetti c'era il Trattato sulla tolleranza di Voltaire che molti avevano letto a scuola e che in queste due settimane è andato a ruba nelle librerie. Ed è da lì, penso io, che si comincia a distinguere che cosa tollerare e che cosa non tollerare.

2 commenti:

  1. Il problema di fondo è che se persino noi in Italia tendiamo ad adeguarci al modello USA, non ne abbiamo uno nostro da proporre all'immigrato e, nel nostro eterno provincialismo, non lo pretendiamo neppure.

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  2. E infatti l'errore è doppio: 1) imitare il modello USA (senza rendersi conto delle differenze storiche); 2) non voler elaborare un modello proprio. Il problema resta irrisolto e la vita diventa sempre più difficile.

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