Dopo tanti interventi di Lucio Caracciolo sulla fine dell'intesa Occidentale, con l'America che finalmente abbandona ogni scrupolo e ringrazia l'Europa di ottant'anni di omaggi e riconoscenza con una pernacchia (da dietro), ho pensato di scrivere a Limes alcune mie impressioni, che riporto qui di seguito, corrette in pochi punti.
Gentile Dottor Caracciolo,
La seguo volentieri nei suoi interventi, specie su quanto riguarda la dissoluzione dell' "Occidente transatlantico". Vorrei poterle dare alcune osservazioni dall'interno delle humanities nelle università americane che la potrebbero incuriosire.
Insegno lingua e letteratura italiana nelle università americane da trent'anni circa e ho visto le trasformazioni della mia disciplina e le sue ragioni geopolitiche. Nei primi anni novanta, quando ero ancora studente al dottorato, l'onda lunga della guerra fredda garantiva un solido interesse americano sia all'Italia storica, soprattutto dal Trecento al Cinquecento, sia all'Italia moderna e contemporanea. Alle varie contestazioni si rispondeva concedendo più spazio, com'era giusto, chi dalla storia era stato trascurato, ma poco cambiava, in termini di metodo. Attorno ai primi anni 2000, anche per recuperare studenti sempre meno avvezzi alla lettura, la filologia tradizionale si indebolì politicamente e subentrarono i 'cultural studies', una specie di semiologia / sociologia che si occupava e tuttora si occupa di un po' di tutto, dalle minigonne al caffè espresso. Era chiaro che l'italianistica passava dalla 'giving side' di chi soddisfaceva una domanda attiva di conoscenza alla 'asking side' di chi invece doveva creare l'interesse per un prodotto culturale. Mentre l'Italia reale si impoveriva, all'estero si cristallizzava la sua immagine mediatica più banale.
L'America studia solo ciò che le serve per sostenere o giustificare il suo ruolo predatorio imperiale, lei m'insegna. Provi a scorrere l'indice, nient'altro, dello studio classico di Eric Auerbach Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale. Guardando la prima edizione (Berna, 1946), si nota chiaramente il libro di un professore tedesco di lingue neolatine che sa anche l'inglese: Omero, Petronio, Ammiano Marcellino, la Storia dei Franchi di Gregorio di Tours, la Chanson de Roland, il Mistero d'Adamo, Dante, Boccaccio, Rabelais, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, La Bruyère, Manon Lescaut, Schiller, Stendhal, i Goncourt e Virginia Woolf. Se invece si pensa alla traduzione inglese (Princeton University Press, 1953), con Yalta alle spalle e Auerbach già professore alla Yale, vi si scorge con chiarezza la mappa letteraria dell'Europa alleata (anche se la Spagna entra nella NATO solo nel 1982). La traduzione italiana è del 1956: allineamento quasi immediato. Da allora, e soprattutto dopo il lancio dello Sputnik, nel 1957, nelle università americane iniziarono a rafforzarsi i vari dipartimenti di lingue e letterature europee, che oggi sono non in crisi, ma in via di estinzione proprio perché l'America non ha più bisogno della cultura europea per giustificarsi al mondo. Anzi, oggi la cosiddetta 'cultura europea' prevede una serie di regole e di istituzioni che al momento sono solo d'impiccio all'espansione tecnologica.
In proposito, sarebbe bene riequilibrare i termini della questione woke, che non è affatto il gran disastro identitario di cui si parla. Con la morte in diretta di George Floyd, l'America intera ha dovuto affrontare il proprio razzismo sistemico e non c'è riuscita e quindi si è spaccata in due fronti: gli eterni penitenti che si battono il petto e chiedono scusa di esistere (e votano democratico) e i negazionisti che non vogliono essere disturbati da inutili crisi di coscienza (e votano per Trump). Un certo disgusto verso sé stessa sarebbe solo salutare, per l'America, se avesse il buonsenso di valutare il passato con equilibrio e riconoscere le scempiaggini commesse e avviarsi verso un'equa distribuzione delle ricchezze. Ma l'America non riesce né a sopportare il dolore di avere torto né a pensarsi al di là del paradigma espansionistico della conquista. Perciò va avanti o stracciandosi le vesti in eterna penitenza, perché il protestantesimo non prevede l'assoluzione dai propri peccati, o snobbando i crucci e pensando che le conseguenze le paghino comunque gli altri, cioè i poveri, i maledetti da Dio, i dannati della terra predestinati alla dannazione ("those shithole countries...").
Si aggiunga che il woke coinvolge soprattutto i professori di materie letterarie e scienze sociali, cioè i meno pagati di tutta la compagine universitaria e quindi i più disprezzati, i cattivi maestri che hanno usato l'intelligenza per l'impegno civile e non per il proprio interesse in un paese che premia solo quello. Quella tra woke e anti-woke è una guerra tra poveri e ormai non interessa a nessuno: qui, morto un povero, morto un cane. A chi lavora nelle humanities, il distanziarsi dell'America dall'Europa per ovvie ragioni di comodo era noto da parecchio. Anche a chi tanti anni fa, giovane fesso e ignorante, a figure come Jimmy Carter aveva anche creduto.