Ero appena arrivato a New York e, anche se abitavo nel mio primo appartamento con aria condizionata, non riuscivo a restare in casa la sera d’estate. L'abitudine del passeggio serale da provincia italiana non mi aveva abbandonato, anche perché l'avevo mantenuta felicemente ai tempi di Cambridge, Massachusetts. E fuori? Fuori c'erano solo afa e svacco estivo, perché New York c'era tutto, ma a un'ora di treno: bisognava studiarsi bene la guida e prenotare in tempo e non trovare tutto sold out, che in italiano suona come "soldato"; e non bastano i tre anni di militare a Cuneo per farti uomo di mondo. Anzi, omaggio a Totò, appena arrivi alla stazione della metro si ripropone la domanda metafisica: "Per andare dove vogliamo andare, dove dobbiamo andare?"
Io invece volevo fare due passi; che è un altro concetto metafisico, perché presume la voglia di uscire di casa, ma in totale assenza di scopo e con una modesta curiosità nei confronti del vicinato, che nel caso mio era Harlem, e non una delle parti più piacevoli e note. Poche sere prima avevo conversato in spagnolo con un portoricano, che mi aveva detto: "Senti, sei simpatico e mi piace parlare con te; ma con la faccia che ti ritrovi è meglio che fili a casa, che è già l'una ..." Parola sua: gli credetti e andai a nanna.
Una sera mi misi a camminare per il corso principale, la 125a, ovvero Martin Luther King Boulevard, e a circa venti metri davanti con tutta probabilità, perché ammetto di non ricordare molto bene, doveva camminare una nera alta e statuaria dal protruso e consistente didietro e io, pigro bipede ambulante, devo averci posato lo sguardo. Ripeto, però: ricordo male. Ricordo invece benissimo che mi chiamarono da una macchina accostatasi al marciapiede quattro neri sui venticinque-trent’anni, per fortuna sorridenti:
Hey man! (“Ehi tu!”)
Yeah? Rispondo girandomi appena.
Once you go black you never come back! (Quando si passa al nero non si torna più indietro)
Yeah, right (Sìiii, capito)
Do you want some black pussy? (Vuoi un po’ di ficolina nera?)
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