Per come l’ho conosciuta io – e per come ci sono cresciuto – sono convinto che la società italiana sia stata, almeno per molti anni, tendenzialmente omofoba, cioè che abbia avuto un forte timore verso l’omosessualità (anche a sinistra, come sapeva e soffriva il buon Luchino Visconti). Tant’è che la lingua italiana ha inventato infiniti termini derisori per l’omosessualità maschile (metafore vegetali dall’analogia oscura, prominenze corporee lombrosiane e quant’altro) e ha steso un velo di censura su quella femminile (salvo la metonimica Isola di Lesbo, che però si ritrova anche in francese e in inglese, da cui è probabilmente mutuata). È un ambito a cui, per psicofisiologia personale, non appartengo, ma che qui in America ho incontrato più volte, faccia a faccia.
Sia detto per inciso che, a parte gli ultimi venti o trent’anni, nemmeno i paesi anglosassoni hanno una storia di grande tolleranza verso l’omosessualità (e mi dicono che l’Australia sia ancora renitente a molte giustissime concessioni). Certo, magari per rivolta al puritanesimo della tradizione locale, la provincia universitaria del New England degli anni novanta, aveva rivolto l’ossessione omosessuale in positivo: alle feste del gruppo omosessuale-lesbico-bivalente bisognava partecipare comunque, in segno di solidarietà verso un gruppo che dopo anni di discriminazione era riuscito finalmente a emanciparsi.
Non l’ho mai fatto: mi sembrava stupido e paternalistico, quasi si chiedesse una forma di convalida ai ‘regolari’ (ma in virtù di quale regola?). Mi ha sempre fatto un po’ ridere l’ossessione verso la regola che poi va trasgredita, ma solo per chiedere a chi ha istituito la regola di istituirne a sua volta la trasgressione. Magari i filosofi mi diranno che è molto hegeliano (la società si evolve inglobando ciò che prima era abbietto), ma a me sembra invece il giochetto del nipotino bebè di Freud, che gettava dalla culla il suo giocattolo urlando Fort! (“via”), per poi recuperarlo tirando lo spago a cui il giocattolo era legato e urlando Da! (“qui”). E infatti nonno Sigmund parlava di Fort-Da come costituzione primaria del racconto: ciò che prima manca, o si allontana, dopo viene recuperato.
New York non conosce confini o remore di alcun genere. L’omosessualità è vissuta apertamente fin dagli anni trenta (specie nel quartiere delle arti, il Greenwich Village, aperto a qualsiasi stile di vita). Lì, per rivendicare le loro posizioni, gli omosessuali non hanno bisogno di fare quadrato. Ammetto che non fu piacevole trovarsi intrappolati nella folla della parata annuale – per me, poi, che odio le parate – specie con la bicicletta nuova comprata a Chinatown e da riportare intera a nord della Upper West Side, ma debbo dire che il servizio d’organizzazione di base fu molto efficiente e mi aiutò con gran gentilezza a disimpegnarmi. Finché una sera…
Un po’ di pazienza: è d’uopo una parentesi linguistica. Malgrado i termini di derisione e i silenzi di censura, l’italiano ha in sé grandi risorse proprio per venire incontro all’emergere dei soggetti omosessuali. Ormai il termine internazionale è l’inglese gay, che all’origine significava ‘gioioso’, ‘contento’, come il poeta tra i ranuncoli di Wordsworth: “A poet could not be but gay in such a jocund company” non sancisce l’omoerotia coatta. Ma allora perché sancire la gioia coatta? Un omosessuale avrà pure il diritto di essere giù di corda, qualche volta. E allora la lingua italiana può aiutare non solo a liberarsi della gioia coatta – e peraltro omofoba, perché all’origine presupponeva che l’omosessualità fosse essenzialmente trastullo e sollazzo – ma addirittura rispettare i problemi di gender con le variazioni di genere. Con un maschile e un femminile, un singolare e un plurale, possiamo dare giustizia e riconoscimento a tutte le categorie: un gheO, due gheI, una gheA, due gheE. È la soluzione che intendo adottare (come il femminile “pompiera”, carriera scelta da una carissima amica ghea: quando le risorse ci sono, vanno usate).
Una sera, dicevo, al di fuori di qualsiasi mia intenzione, capitai proprio in un bar gheo. Ero appena uscito dal cinema e avevo voglia di un baretto con un po’ di musica dal vivo, magari un gruppetto di jazz latinoamericano, magari acustico. Arrivai alla porta di un locale e chiesi a una signora tarchiata e ben impallonata in un giaccone nero di pelle: “Chi suona stasera?” “You know, this is a gay bar” (“guardi che è un bar gheo”). “Oh…” risposi con sorpresa ben contenuta, da buon “falso inglese”. “But you can always come in and have a beer, if you want” (“Però può sempre accomodarsi e farsi una birra, se crede”). Non mi sembrava educato rifiutare l’invito (ma che falso inglese…!) ed entrai.
Il bar era convenzionale, normalissimo (a ve’…!), con i tavoli tra i separé, il bancone di mescita, dove ordinai la birra in questione, e i tavoli da biliardo, dove mi rifugiai subito. Quando capito in un bar dove non conosco nessuno, mi metto sempre attorno al tavolo da biliardo: mi ricorda la mia infanzia, quando – di rado – mio padre giocava al Caffè Centrale (che non c’è più). Mi piace guardare il gioco, pensare, magari rivolgere la parola ai giocatori; e ogni tanto ci scappa una birra e un amico in più. Quella sera giocavano a biliardo due signore altrettanto tarchiate e impallonate, chiaramente ghee, che mi sfidarono con lo sguardo: chi sei e che cosa vuoi? Io sorridevo, sornione e falso inglese. Sembravo inoffensivo. Perciò cominciammo a ridacchiare e le seguii fino alla fine della partita e della mia birra; non ne seguì una seconda – né birra, né partita – ma mi ero guadagnato il sorriso. La signora ghea dell’entrata mi disse di tornare a trovarli.
Non mi capitò più di ripassare davanti al bar gheo. Però ci passai un bel dopo-cinema, calmo e tranquillo, con quel po’ di allegria che ci si può permettere con chi non ti conosce e magari ti guarda come un intruso, se non sembri abbastanza gheo (ma non sta a me dirlo). Se fossi capitato in un altro bar, magari mi sarei trovato in mezzo a stormi di fighette vanitose e sprezzanti in parata e sciami di fighetta modalioli altrettanto vanitosi e sprezzanti intenti a far da giudici al concorso di bellezza e a spiare le mosse degli altri prima di andare all’attacco; stormi e sciami mi avrebbero squadrato dall’alto in basso e girato la testa altrove. Bah! Potrei dire che sono troppo vecchio, ma certe cose – la vanità, la prepotenza – mi disgustavano anche da giovane.
E allora tornai a casa, ricordando che anni prima, in un altro continente, in un’altra lingua, una ragazza bellissima e affettuosa di fronte a un caffè avrebbe potuto dirmi che mi amava, se solo gliel’avessi detto prima io, invece di fare il falso inglese. Lo seppi solo anni dopo. E ormai ero invecchiato; e allora il falso inglese riuscì con sforzi immani a contenere e reprimere nel profondo l’urlo disperato del piccolo Freud che brancolava alla ricerca dello spago tagliato: Da!