L'italiano



Dopo quasi vent’anni d’America parlo e scrivo ancora in italiano quando e quanto posso. Altrimenti parlo e scrivo in inglese, in cui peraltro certi formulari mi riescono meglio: lettere di presentazione, programmi, ecc. Ho letto quanta più prosa inglese possibile, dai classici della letteratura ai romanzi di oggi alle riviste di attualità politica e culturale, come il New Yorker o l’Atlantic Monthly, che seguo regolarmente (oltre a Film Comment, visto che mi interesso di cinematografia) e ormai penso di avere una vita culturale piena anche in inglese. Se così non fosse, non potrei conoscere un buon settanta per cento dei miei colleghi (defalcando quelli di lingua francese e spagnola). Anche se abito nella provincia americana, so bene che l’italiano è parlato dall’1% della popolazione mondiale e che non più di un decimo di questi abita fuori dalla penisola.

Perciò, anche se insegno lingua e cultura italiana, capisco perfettamente le ragioni dell’insegnamento delle scienze in lingua inglese anche in Italia, col Politecnico di Torino che abbuona le tasse a chi rinuncia all’italiano e quello di Milano che ha reso l’inglese obbligatorio nei due anni di laurea specialistica. Non è sbagliato, specie ai livelli superiori di specializzazione, immettere gli studenti nella realtà della ricerca, che è anche realtà linguistica. Ho però qualche riserva.

In primo luogo, la scelta dell’inglese per “aprirsi al mondo”, per così dire, sottintende una certa rinuncia dell’ambito nazionale alla ricerca. Si investono quindi soldi in formazione sapendo poi che i frutti della stessa verranno goduti altrove. Magari è sana Realpolitik, ma non rassicura. È come dire agli studenti che, anche se hanno scelto la disciplina più promettente sul fronte lavoro – di certo con impegno, ma magari con grandi sacrifici e magari, ammettiamolo, controvoglia – dovranno combattere comunque per i pochissimi posti disponibili col resto del mondo e prepararsi a fare le valigie. “Siete tanto bravi, ma non ci servite”: non mi sembra degno.

Inoltre, la lingua inglese dei corsi superiori della facoltà d’ingegneria rischia di essere una lingua artificiale e sconnessa rispetto al tessuto culturale a cui fa comunque riferimento. È vero che teoremi e laboratori sono gli stessi in tutto il mondo, ma le modalità di studio hanno comunque una loro origine culturale che va conosciuta. C’è una cultura angloamericana ora egemone nel mondo proprio perché non se ne conoscono i fondamenti; si corre quindi il rischio di non saperla relativizzare e contestualizzare. Allora si imita alla cieca, rimpannucciando e raffazzonando, inseguendo l’utile immediato con l’inglese oggi e magari col cinese domani (che presenta tutt’altri problemi), senza mai mettersi a ragionare

Hanno sollevato il problema due monumenti della linguistica italiana, Luca Serianni e Tullio De Mauro, a cui non si può non essere grati (noi insegnanti lo sappiamo), che assieme a scrittori come Sandro Veronesi e storici della filosofia come Tullio Gregory hanno gridato alla follia: togliendo la lingua della formazione agli studi regrediscono le strutture del ragionamento. Si potrebbe obiettare – e gli scienziati l’hanno fatto – che all’età della specializzazione gli studenti dovrebbero saper già ragionare, e bene. Chiunque abbia lavorato anche per poco nella scuola, però, sa che non è affatto così, purtroppo: per tante ragioni – soprattutto un’industria mediatica contro cui sembra non aver senso combattere – l’apprendimento delle strutture razionali del pensiero critico e dell’argomentazione è sostanzialmente rallentato. Si legge meno; si scrive magari non meno, ma di certo peggio; il pensiero non sembra attivarsi se non a fatica, come un locomotore spompato. Ci vuole più italiano, e presto.

“L’italiano non è l’italiano, è il ragionare” diceva il Professor Carmelo Franzò di Una storia semplice di Sciascia; e lo sappiamo tutti. Il difficile è rendersi conto della seconda frase del professore al magistrato inquirente, suo ex-allievo peggiore: “Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto.” Ed è questo il problema italiano: per un po’ di successo e per quattro soldi in più si è disposti a buttare a mare anche il ragionare, il buon senso, l’attenzione alle cose, la moderazione. Perciò io, professore d’italiano di finanze modeste, ma grato alle università italiane che in italiano mi hanno fatto studiare praticamente gratis e mi hanno dato la preparazione che poi mi ha consentito di studiare gratis anche in America, dico, come un altro personaggio siciliano: no, dieci volte no, mille volte no.

Ci vuole più italiano, senza dubbio, e ci vuole più italiano dove l’italiano possa avere maggior effetto, cioè dove veramente faccia ragionare. Ci vuole più italiano nelle scuole, con programmi di formazione moderni che invitino e convincano i giovani a leggere, conoscere, pensare ed esprimersi con correttezza e precisione. Ci vuole un italiano migliore nei giornali e in televisione e ci vuole un’informazione che rispetti l’intelligenza e la dignità dei suoi destinatari. Ci vuole più italiano all’università, nei corsi di laboratorio di prosa che dovrebbero essere istituiti in tutte le facoltà: un ingegnere italiano che non conoscesse per lettura diretta Galileo non potrebbe avere un senso pieno della propria formazione. Ci vuole più italiano nelle attività culturali destinate al pubblico generale. Tutte cose che non fanno un gran PIL, ma che fanno ragionare, pensare, capire, conoscere noi stessi e gli altri; perché, ragionando e imparando l’inglese, si capisce che gli anglosassoni sono ben lontani dall’aver sempre ragione.

Non è ora di ansia da PIL, ma di ricostruzione quieta, modesta e ragionata. Perché, con meno italiano, l’Italia sarebbe forse ancora più in basso. 

2 commenti:

  1. Stesso discorso si potrebbe fare anche per il latino, che è stato la lingua dei dotti fino a Galilei; ci si dovrebbe anche domandare quale inglese parlino poi i docenti delle università italiane...

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    1. Il latino sarebbe magari troppo (ma forse per questo è stato mantenuto al liceo scientifico); però almeno l'italiano.

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