23 maggio 2012

Dalle mie parti...

Sono di Bondeno di Ferrara. Una volta, quando erano troppe le cose che non capivo, non ci tenevo molto. Oggi, nonostante le troppe cose che seguito a non capire, penso di avere un senso del posto in cui sono nato. Non è un bel paese. Non ha monumenti storici di rilievo, solo una piazzetta carina del Cinque-Seicento con l’unico porticato. Non ha nessuna attrazione particolare. Non è Finale Emilia, l’epicentro del terremoto di questi giorni, coi suoi soffitti affrescati, con la sua torre dell’orologio mezza crollata, con la sua stagione teatrale. È Bondeno: ha subito le scosse, ma pochi ne parlano (magari ha meno danni, non lo so).

Sul suo Facebook, un’amica delle mie parti scrive che mai come adesso, dopo le scosse, ha amato quei luoghi; che poi sono gli stessi che ho fotografato più volte e pubblicato nei miei album, sempre in Facebook. Un’altra mia amica mi dice che scompaiono i casolari di campagna, le cascine, le barchesse…E allora mi chiedo: che cosa sono le mie parti?

Le mie parti sono i paesaggi di campagna, fermi, immobili, con le foglie verdi che tremano al vento d’estate e rinsecchiscono e cadono in autunno, coi rami spogli che si stagliano neri sul bianco della nebbia o si coprono di galaverna d’inverno. Sono gli scorci di fiume, le anse, gli argini, le golene, le lingue di sabbia in mezzo alla corrente, che noi chiamiamo ‘isole’. Sono le pozze, gli acquitrini, gli stagni al lato dei campi, i cespugli di sambuco lungo le scarpate. Sono le case gialle nel sole del tramonto. Tutte cose che non hanno niente di particolare.

Forse vi sono affezionato proprio perché non hanno nulla di particolare né pretendono di averlo: sono il mondo com’è, che esiste solo perché così è. Gianni Celati, che ha raccontato molto bene questo mondo, amava le bifamiliari simmetriche “in stile geometrile” sulla Via Emilia: non si mettono in mostra, non rivendicano né canoni né trasgressioni. È un mondo che mette di fronte al grado zero dell’esistenza, a quello che ci rende tutti comuni, al nostro mero esistere quotidiano; proprio quello messo oggi in pericolo dalle scosse sismiche.

Una caratteristica delle mie parti è, dicono, il capiríssim, strazio grammaticale del verbo “capire” col suffisso di superlativo assoluto. È una forma di rassegnazione materialista residuale, dopo secoli di vessazioni ambientali (rari i terremoti, magari, ma frequentissime le alluvioni) e storiche (gli Estensi erano tutt’altro che santi e lo Stato Pontificio era ancor peggio), che porta ad anticipare la disfatta con l’imperturbabilità, la stessa del paesaggio attorno. E allora si lavora sodo e si pazienta: si accetta la grande Via del mondo e si opera tutti i giorni, come nel Tao e in Confucio. “Po”, del resto, suona cinese.

Non è una perla di saggezza e nemmeno un comportamento sempre positivo; anzi, può portare all’uggia e alla noia e tarpare ogni potenzialità di pensiero e di azione. Lo dice sempre, a ragione, un altro mio amico delle mie parti, che mi ha insegnato lettere al liceo e che ha sempre vissuto in direzione ostinata e contraria. Non so se possa servire il Tao di Bondeno, in questi giorni. So solo che l’ipocentro del sisma non mi sentirà, ma ciononostante vorrei tanto che avesse pietà per “i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità (…)” (parole di Vittorio Sereni; non ne ho trovate di migliori). Perché quelle sono le mie parti, le parti di tutti noi.

Un abbraccio a tutti quelli delle mie (delle nostre) parti.

10 maggio 2012

Per capire i loro silenzi (in forma di lettera)

Caro Giancarlo,

Scrivo da un'enorme libreria Barnes & Noble, nel mezzo di uno strip mall americano, una striscia disordinata di negozi (subito prima c'è Walmart, dove tutto costa meno, e subito dopo Whole Foods, con le sue leccornie d'importazione) che dà su un enorme piazzale-parcheggio. Gli scaffali si estendono per centinaia e centinaia di metri, tutti uguali. C'è da perdersi. La sola area caffè è grande quanto il Bar Centrale di un paese. Lontano, verso la finestra, vedo un tizio col maglione a girocollo e gli occhiali che legge un libro in prestito dalla biblioteca della mia università (riconosco la rilegatura marrone e il talloncino del codice a barre). Dietro la balaustrina, due quarantenni ridacchiano e parlano di Chesterton, quello di Padre Brown (che per me in televisione era Renato Rascel) e davanti a me, sprofondato sulla poltrona, un tizio enorme sta divorando un grosso romanzo di Stephen King ed è già oltre i tre quarti; e se sta attento a non incurvare il dorso, è perché probabilmente non lo vuole comprare.

Le librerie mi danno una certa calma e sicurezza. All'università, io e altri squattrinati (allora e poi) della facoltà di lettere presidiavamo la Feltrinelli di Via San Francesco a Padova leggendo di straforo Il libro dell'inquietudine di Pessoa (un commesso era nostro compagno di corso e ci copriva le spalle). Quando cambiai lingua e, all'Harvard Bookstore, acquistai i due volumi dell'Oxford Shorter English Dictionary che uso di continuo, mi presentarono a un canadese cinquantenne allampanato di origini per metà giapponesi e l'altra metà pellerossa, grande cultore della lingua inglese e organizzatore culturale di letture di poesia, che un bel giorno mi disse che stava per trasferirsi ad Atlanta per sposarsi (e non aveva nemmeno l'aria di essere fidanzato). E come avrebbe campato? Riparando computer. E liquidò la mia espressione di stupore: "Sono sempre stato bravo col cacciavite."

A New York, invece, a due strade dalla Columbia University, c'era il Labyrinth Bookstore (che ora chiamano Bookculture, ma per me il nome non cambia). Tutt'altro che labirintico, aveva le novità al primo piano e lo stock al secondo, diviso per discipline (narrativa, poesia, filosofia, economia, storia, scienze politiche, scienze naturali, antropologia, ecc.) Col 25% di sconto su tutti i titoli a causa degli ordini per i corsi, feci man bassa. I commessi erano i miei compagni di bevute e a una di loro subaffittai l'appartamento mentre ero in Italia. "Oddio!" esclamò appena entrata: "Hai comprato metà negozio!" Ma aveva ragione papà: i libri non vanno mai a male. E forse proprio per questo il giorno in cui papà mi lasciò per un altro mondo (magari migliore) mi raccolsi in un angolo del Labyrinth Bookstore a leggere i classici inglesi che più amava: Shakespeare, Dickens, Hemingway, Virginia Woolf... I commessi lo sapevano e mi lasciarono stare fin quasi all'ora di chiusura.

Le librerie sono un mondo a sé, dove grandi saggi e pazzi scriteriati imparano a convivere, e quasi sempre nella stessa persona, che non si vergogna più dei vari lati della propria personalità (come invece accade in qualsiasi ambiente di lavoro). Leggendo ci si lascia andare e non si ha più paura di chi ti sta attorno. La frase diventa troppo importante e passa la fermata della metro; oppure all'ultima pagina sgorga la furtiva lacrima che ci fa chinare sul libro, alzandolo sopra la fronte. Dopo un libro si cambia: si diventa più allegri o più tristi, più entusiasti o più disincantati, più spavaldi o più timorosi; ma ci si avvicina immancabilmente a noi stessi, lasciando dietro qualsiasi vergogna o spavalderia. Di fronte a un libro non abbiamo paura di essere noi e solo noi.

Il libro è un trampolino verso la coscienza: tutti abbiamo un po' paura di tuffarci. Però poi ci si prende l'abitudine e si scopre che a leggere non si è mai soli: ci sono tantissimi lettori vicino a noi. Per riconoscerli basta uno sguardo, un'alzata ironica di sopracciglia, una pausa nel discorso, magari un silenzio. E infatti, quando al tavolo della colazione di un alberghetto vicino a Washington, DC un giovane imprenditore mi chiese se secondo me fosse il caso di imparare due o tre parole di giapponese per ingraziarsi i clienti di Tokyo, gli risposi che gli sarebbe convenuto leggere Il paese delle nevi di Yasunari Kawabata in traduzione per capire i loro silenzi. Che sono un po' anche i nostri, quando ci mettiamo a leggere.

Il tuo ex-professore di lettere
Andrea