18 settembre 2016

Ricordi di un dimenticone

Qui dall'altra parte del fosso, come diceva mio padre ("Là d'là dal fos..."), le donne sono in genere ossessionate dalle date di coppia. Noi uomini, invece, dimentichiamo, tralasciamo...

E sia: io sono tanto dimenticone da non essermi ricordato, il 26 agosto, del novantesimo di mio padre (classe 1926); ma un ricordo recente di Dugles Boccafogli in Facebook me l'ha fatto tornare in mente. Era il 1987 e al Tennis Club di Bondeno si svolgeva il secondo torneo singolare femminile. Lascio la parola a Dugles:

Il giudice arbitro era Roberto Del Vecchio, che si rese protagonista di un richiamo al dr. Rolando Malaguti che, presente tra il pubblico in tribuna, commentò uno scambio tra le giocatrici. La replica il dr. Malaguti la rivolse a Gianni Zampieri, dicendogli: "Presidente, chi è quell'energumeno che mi vuole zittire?". 

 Mio papà commentava a voce alta e probabilmente l'arbitro Del Vecchio si era limitato a un serio e magari sussiegoso "Silenzio in tribuna, prego!". Papà era un caratteraccio difficile, autoritario e intollerante; ma non gli si può non riconoscere una sana insofferenza nei confronti di ogni formalismo e di ogni ostentazione e un senso dell'umorismo fuori del comune. La risposta all'arbitro (che mi fa arrossire ancora oggi) è solo una delle sue tante uscite; qui ne racconto altre due che ho sentito io e solo io e invito gli altri a riportarne altre nei commenti. 

Un giorno papà ed io camminavamo per un sentiero di montagna. Faceva caldo, ma non lo sentivamo molto e camminavamo in discesa con tanto di maglietta bianca e camicia a quadri addosso. Mio padre era piccolino e magrissimo, come molti ricorderanno, e io un po' più grosso e più alto, ma mai oltre il metro e ottanta. Vedemmo venire in salita un uomo alto almeno due metri, biondo, probabilmente tedesco, dall'incedere fiero e impettito, a torso nudo con tanto di rigonfi muscolari; lo lasciammo passare e quando costui fu ad almeno trenta metri, papà si girò verso di me col pollice e il medio della mano destra puntati all'ultima falange dell'indice della stessa: "Al gh'avrà 'n pistulìn lông acsì...!" Impietoso, ma ben trovato. 

Soffrivo da tempo di cisti sebacee e una era andata in suppurazione. Chiesi a papà di farmi una piccola incisione e di liberarmi dal dolore che ormai mi affliggeva da giorni. Vinta una certa sua riluttanza iniziale (non voleva mettere le mani addosso a nessuno e posso dire che non aveva nessuna manualità) finalmente mi invitò a presentarmi al suo studio in ospedale il giorno dopo alle nove e tre quarti. Mi fece spogliare fino alla cintola e mi disse di accomodarmi prono sul lettino, poi mi chiese: "La facciamo alla piccolo montanaro?" E che domanda era? Eravamo stati tanto in montagna insieme, vero, ma avevo ventiquattro anni, per la miseria! Risposi sì, va bene. Papà si mise a straziare sia la melodia de Le petit montagnard di Frontini, cominciando a canticchiarla (era stonatissimo), sia le mie povere carni, cacciando a forza il bisturi nella ciste infetta e quindi spremendola più e più volte per epurarla (lo so che si fa così, ma un minimo di anestesia periferica non avrebbe guastato). Dopo l'operazione, non riuscii a non sorridere e papà fece portare nel suo studio due caffè. 

Cominciò così la nostra abitudine di prendere il caffè insieme, fino all'ultima volta, alla stazione di Ferrara, alle sei di una mattina del gennaio 2003. Papà portava il sondino naso-gastrico, si nutriva artificialmente e non parlava più. Aspettavamo il treno per Bologna, primo tratto del mio ritorno a New York, dove abitavo allora. Papà indicò col dito il bar aperto, entrammo e con un gesto della mano mi fece capire che voleva che prendessi il caffè, il mio ultimo caffè con lui. Se mi capita di entrare in un bar di mattina presto (è raro) mi guardo sempre in giro e c'è sempre qualcuno che non vedo.