Curzio Malaparte |
Richard T. Gibson |
Il giorno dopo mi allungai verso il Cimitero Militare di Arlington. Era un bel sabato di sole e caldo e il cimitero era affollato di famiglie di ogni nazione a guardare le migliaia di lapidi dei soldati semplici. Non ci si può accostare alle tombe, ma quelle più vicine si leggono bene: sono quasi tutti morti nella Guerra di Corea o in quella del Vietnam. L'anno di nascita più frequente che ricordi era il 1947, quello di morte il 1969. Tra le famiglie, erano tanti i babbi e i nonni dai capelli bianchi, ma ancora ben in forma e a volte atletici: avranno avuto sessantacinque anni circa. Ecco, pensavo, qualche reduce vivo, scampato al fuoco nemico o amico, o qualche compagno di scuola che ha visto gli amici partire. E poi, quello che è successo lo raccontano bene Malaparte e Gibson, perché in certe cose tutte le guerre sono uguali.
Magari avrei dovuto guardare l'indice destro dei sessantenni: molti se l'erano amputato per essere esentati dal servizio, non potendo premere il grilletto del fucile; ma in certi momenti la malizia proprio non mi riesce. Non mi riesce nemmeno davanti alla tomba di John Kennedy, un enorme quadrato di cemento con una pira sempre accesa in mezzo. Non mi riesce nemmeno di fronte al marmo rosa di Robert McNamara, Segretario Generale alla Difesa dal 1961 al 1968, che solo nel 1995 dichiarò d'aver ritenuto che l'intera Guerra in Vietnam fosse futile. No, per lui c'è solo rabbia, rabbia per tante lapidi bianche solo per una futilità. E questa è Washington per noi, riformati dal servizio militare italiano e residenti in mezzo alle province dell'impero.
"Look: you can see the Pentagon from here!", osservava un signore. Vero: dal Cimitero di Arlington si vede il Pentagono. E viceversa, suppongo. Spero solo che dal Pentagono, almeno ogni tanto, guardino verso Arlington e riflettano sulle conseguenze delle loro decisioni.