27 giugno 2025

Per un film sul fiume Po

Ecco alcuni passi significativi tratti dall'articolo di Michelangelo Antonioni "Per un film sul fiume Po", apparso sulla rivista Cinema nel 1939: 


Altro punto interessante e significativo è dato da un particolare riflesso della civiltà sulle stesse genti del fiume. Il quale aveva, in altri tempi, aspetto ben più romantico e pacato. Vegetazione arruffata, capanne di pescatori, molini natanti (ancor oggi ne è rimasto qualche esemplare), traghetti rudimentali, ponti di barche; il tutto sommerso in un'aura smemorata ed estatica, in un senso di forza irresistibile che sembrava evaporare dalla gran massa d'acqua e avvilire ogni cosa. La popolazione — gente solida, dai gesti lenti e pesanti — conosceva i lunghi riposi sulle rive e i vagabondaggi per i boschi che le rivestono, gli specchi pescosi e i piccoli seni nascosti sotto i salici chini a lambire le acque, e lasciava che in questa lentezza scorresse la propria esistenza, tuttavia occupata nei trasporti di merci e di persone, nei molini e, sopra tutto, nella pesca.


Ma nemmeno per le cose gli anni passano invano. Venne anche per il Po il tempo del risveglio. E allora furono ponti in ferro su cui i treni sferragliano giorno e notte, furono edifici a sei piani chiazzati di enormi finestre vomitanti polvere e rumore, furono battelli a vapore, darsene, stabilimenti, ciminiere fumose, perfino altri canali dagli argini in cemento; fu insomma tutto un mondo moderno, meccanico, industrializzato che venne a mettere a soqquadro l'armonia di quello antico. 


Eppure, in mezzo a questo sciuparsi del loro mondo, le popolazioni non hanno sentito rimpianti. Lo avrebbero voluto, forse, ché la loro natura scontrosa e contemplativa non si adattava ancora al nuovo stato di cose, ma non ci sono riuscite. La evoluzione, a un certo punto, non soltanto non le disturbava ma in un certo modo le accontentava. Cominciavano a considerare il fiume nel suo valore funzionale; sentivano che si era valorizzato e ne erano orgogliose; capivano che era diventato prezioso e la loro ambizione era soddisfatta. 






20 aprile 2025

Pasqua di patate

 Stando alla trasmissione radiofonica umoristica Wait, Wait... Don't Tell Me! che però si riferisce sempre a fatti realmente accaduti , l'abitudine americana delle Easter Eggs, le uova nascoste in giardino che poi i bimbi devono ritrovare, era a rischio quest'anno proprio perché, come si sa, il prezzo proibitivo delle uova stesse dopo i dazi di Trump. Gli americani hanno dovuto infatti rinunciare alle uova, ma non al gioco: sono ricorsi alle patate, che costano molto meno e, se nessuno le trova, invece di marcire, mettono semplicemente le radici e, se interrate, fanno crescere una pianta dalla forma tutto sommato elegante e graziosa. Forse sarà perché non vado proprio pazzo per le uova, ma non mi dispiace che, in tempi di opulenza aggressiva e sfacciata, le patate diano una lezione di eleganza. 

02 aprile 2025

Giornale Radio

 Ho aspettato il 2 aprile per pubblicare le ultime notizie dal giornale radio che ascolto il mattino (New England Public Radio) per evitare che si pensasse al solito scherzo banale. Lo scherzo è che qui, alle sette del mattino, fuori ci sono -3C e i pesci nuotano sotto il ghiaccio di fiumi e laghi. 

Per Luigi Nicholas Mangione è stata chiesta la pena di morte, che nello stato di New York è stata sospesa, ma che Trump ha intenzione di far rispettare a livello federale, specie contro le figure che impersonano lo stato. Perciò in un suo discorso ha invocato la morte contro chi ammazza un poliziotto. Mangione non ha ucciso un poliziotto, ma il direttore generale di United Healthcare Brian Thompson, quindi, semmai, un rappresentante del potere finanziario. Perciò la radio commenta sul valore simbolico della pena, come se potere politico e potere finanziario fossero sempre più prossimi. 

L'attrice canadese Jasmine Mooney racconta la sua odissea in un campo di detenzione americana e quindi in carcere in un resoconto per il quotidiano inglese Guardian. Il crimine? Un equivoco sul visto sul passaporto, che l'ha portata alla detenzione immediata senza la possibilità di comunicare con l'esterno (altro che telefilm!). Nel centro di detenzione, l'attrice dormiva con altre compagne in una gabbia di ferro, sotto una luce al neon che non veniva mai spenta, su un materassino e con solo uno foglio di carta stagnola per coprirsi. Poi venne tradotta al carcere regolare, dove le sue compagne di cella erano appunto altre donne dalla fedina penale pulita, ma detenute per irregolarità di visto di residenza. Una studentessa indiana era munita di visto regolare, ma anni prima, con un vecchio visto, s'era trattenuta due mesi dopo la scadenza dello stesso e ciò sembra che ora basti per essere arrestasti. Anni fa, trattenersi oltre il termine di scadenza comportava solo la deportazione. Oggi pare che abbiano messo un altro dazio. 

19 febbraio 2025

Lettera a Lucio Caracciolo di Limes

Dopo tanti interventi di Lucio Caracciolo sulla fine dell'intesa occidentale con l'America, che con Donald Trump finalmente abbandona ogni scrupolo e ringrazia l'Europa di ottant'anni di omaggi e riconoscenza con una pernacchia da dietro, ho pensato di scrivere a Limes alcune mie impressioni, che riporto qui di seguito, corrette in pochi punti. 

Gentile Dottor Caracciolo, 

La seguo volentieri nei suoi interventi, specie su quanto riguarda la dissoluzione dell' "Occidente transatlantico". Vorrei poterle dare alcune osservazioni dall'interno delle humanities nelle università americane che la potrebbero incuriosire. 

Insegno lingua e letteratura italiana nelle università americane da trent'anni circa e ho visto le trasformazioni della mia disciplina e le sue ragioni geopolitiche. Nei primi anni novanta, quando ero ancora studente al dottorato, l'onda lunga della guerra fredda garantiva un solido interesse americano sia all'Italia storica, soprattutto dal Trecento al Cinquecento, sia all'Italia moderna e contemporanea. Alle varie contestazioni si rispondeva concedendo più spazio, com'era giusto, a chi dalla storia era stato trascurato, ma poco cambiava, in termini di metodo. Attorno ai primi anni 2000, anche per recuperare studenti sempre meno avvezzi alla lettura, la filologia tradizionale si indebolì politicamente e subentrarono i 'cultural studies', una specie di semiologia / sociologia che si occupava e tuttora si occupa di un po' di tutto, dalle minigonne al caffè espresso. Era chiaro che l'italianistica passava dalla 'giving side' di chi soddisfaceva una domanda attiva di conoscenza alla 'asking side' di chi invece doveva creare l'interesse per un prodotto culturale. Mentre l'Italia reale si impoveriva, all'estero si cristallizzava la sua immagine mediatica più banale. 

L'America studia solo ciò che le serve per sostenere o giustificare il suo ruolo predatorio imperiale, lei m'insegna. Provi a scorrere l'indice, nient'altro, dello studio classico di Eric Auerbach Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale. Guardando la prima edizione (Berna, 1946), si nota chiaramente il libro di un professore tedesco di lingue neolatine che sa anche l'inglese: Omero, Petronio, Ammiano Marcellino, la Storia dei Franchi di Gregorio di Tours, la Chanson de Roland, il Mistero d'Adamo, Dante, Boccaccio, Rabelais, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, La Bruyère, Manon Lescaut, Schiller, Stendhal, i Goncourt e Virginia Woolf. Se invece si pensa alla traduzione inglese (Princeton University Press, 1953), con Yalta alle spalle e Auerbach già professore alla Yale, vi si scorge con chiarezza la mappa letteraria dell'Europa alleata (anche se la Spagna entra nella NATO solo nel 1982). La traduzione italiana è del 1956: allineamento quasi immediato. Da allora, e soprattutto dopo il lancio dello Sputnik, nel 1957, nelle università americane iniziarono a rafforzarsi i vari dipartimenti di lingue e letterature europee, che oggi sono non in crisi, ma in via di estinzione proprio perché l'America non ha più bisogno della cultura europea per giustificarsi al mondo. Anzi, oggi la cosiddetta 'cultura europea' prevede una serie di regole e di istituzioni che al momento sono solo d'impiccio all'espansione tecnologica.

In proposito, sarebbe bene riequilibrare i termini della questione woke, che non è affatto il gran disastro identitario di cui si parla. Con la morte in diretta di George Floyd, l'America intera ha dovuto affrontare il proprio razzismo sistemico e non c'è riuscita e quindi si è spaccata in due fronti: gli eterni penitenti che si battono il petto e chiedono scusa di esistere (e votano democratico) e i negazionisti che non vogliono essere disturbati da inutili crisi di coscienza (e votano per Trump). Un certo disgusto verso sé stessa sarebbe solo salutare, per l'America, se avesse il buonsenso di valutare il passato con equilibrio e riconoscere le scempiaggini commesse e avviarsi verso un'equa distribuzione delle ricchezze. Ma l'America non riesce né a sopportare il dolore di avere torto né a pensarsi al di là del paradigma espansionistico della conquista. Perciò va avanti o stracciandosi le vesti in eterna penitenza, perché il protestantesimo non prevede l'assoluzione dai propri peccati, o snobbando i crucci e pensando che le conseguenze le paghino comunque gli altri, cioè i poveri, i maledetti da Dio, i dannati della terra predestinati alla dannazione ("those shithole countries..."). 

Si aggiunga che il woke coinvolge soprattutto i professori di materie letterarie e scienze sociali, cioè i meno pagati di tutta la compagine universitaria e quindi i più disprezzati, i cattivi maestri che hanno usato l'intelligenza per l'impegno civile e non per il proprio interesse in un paese che premia solo quello. Quella tra woke e anti-woke è una guerra tra poveri e ormai non interessa a nessuno: qui, morto un povero, morto un cane. A chi lavora nelle humanities, il distanziarsi dell'America dall'Europa per ovvie ragioni di comodo era noto da parecchio. Anche a chi tanti anni fa, giovane fesso e ignorante, a figure come Jimmy Carter aveva anche creduto.