10 maggio 2012

Per capire i loro silenzi (in forma di lettera)

Caro Giancarlo,

Scrivo da un'enorme libreria Barnes & Noble, nel mezzo di uno strip mall americano, una striscia disordinata di negozi (subito prima c'è Walmart, dove tutto costa meno, e subito dopo Whole Foods, con le sue leccornie d'importazione) che dà su un enorme piazzale-parcheggio. Gli scaffali si estendono per centinaia e centinaia di metri, tutti uguali. C'è da perdersi. La sola area caffè è grande quanto il Bar Centrale di un paese. Lontano, verso la finestra, vedo un tizio col maglione a girocollo e gli occhiali che legge un libro in prestito dalla biblioteca della mia università (riconosco la rilegatura marrone e il talloncino del codice a barre). Dietro la balaustrina, due quarantenni ridacchiano e parlano di Chesterton, quello di Padre Brown (che per me in televisione era Renato Rascel) e davanti a me, sprofondato sulla poltrona, un tizio enorme sta divorando un grosso romanzo di Stephen King ed è già oltre i tre quarti; e se sta attento a non incurvare il dorso, è perché probabilmente non lo vuole comprare.

Le librerie mi danno una certa calma e sicurezza. All'università, io e altri squattrinati (allora e poi) della facoltà di lettere presidiavamo la Feltrinelli di Via San Francesco a Padova leggendo di straforo Il libro dell'inquietudine di Pessoa (un commesso era nostro compagno di corso e ci copriva le spalle). Quando cambiai lingua e, all'Harvard Bookstore, acquistai i due volumi dell'Oxford Shorter English Dictionary che uso di continuo, mi presentarono a un canadese cinquantenne allampanato di origini per metà giapponesi e l'altra metà pellerossa, grande cultore della lingua inglese e organizzatore culturale di letture di poesia, che un bel giorno mi disse che stava per trasferirsi ad Atlanta per sposarsi (e non aveva nemmeno l'aria di essere fidanzato). E come avrebbe campato? Riparando computer. E liquidò la mia espressione di stupore: "Sono sempre stato bravo col cacciavite."

A New York, invece, a due strade dalla Columbia University, c'era il Labyrinth Bookstore (che ora chiamano Bookculture, ma per me il nome non cambia). Tutt'altro che labirintico, aveva le novità al primo piano e lo stock al secondo, diviso per discipline (narrativa, poesia, filosofia, economia, storia, scienze politiche, scienze naturali, antropologia, ecc.) Col 25% di sconto su tutti i titoli a causa degli ordini per i corsi, feci man bassa. I commessi erano i miei compagni di bevute e a una di loro subaffittai l'appartamento mentre ero in Italia. "Oddio!" esclamò appena entrata: "Hai comprato metà negozio!" Ma aveva ragione papà: i libri non vanno mai a male. E forse proprio per questo il giorno in cui papà mi lasciò per un altro mondo (magari migliore) mi raccolsi in un angolo del Labyrinth Bookstore a leggere i classici inglesi che più amava: Shakespeare, Dickens, Hemingway, Virginia Woolf... I commessi lo sapevano e mi lasciarono stare fin quasi all'ora di chiusura.

Le librerie sono un mondo a sé, dove grandi saggi e pazzi scriteriati imparano a convivere, e quasi sempre nella stessa persona, che non si vergogna più dei vari lati della propria personalità (come invece accade in qualsiasi ambiente di lavoro). Leggendo ci si lascia andare e non si ha più paura di chi ti sta attorno. La frase diventa troppo importante e passa la fermata della metro; oppure all'ultima pagina sgorga la furtiva lacrima che ci fa chinare sul libro, alzandolo sopra la fronte. Dopo un libro si cambia: si diventa più allegri o più tristi, più entusiasti o più disincantati, più spavaldi o più timorosi; ma ci si avvicina immancabilmente a noi stessi, lasciando dietro qualsiasi vergogna o spavalderia. Di fronte a un libro non abbiamo paura di essere noi e solo noi.

Il libro è un trampolino verso la coscienza: tutti abbiamo un po' paura di tuffarci. Però poi ci si prende l'abitudine e si scopre che a leggere non si è mai soli: ci sono tantissimi lettori vicino a noi. Per riconoscerli basta uno sguardo, un'alzata ironica di sopracciglia, una pausa nel discorso, magari un silenzio. E infatti, quando al tavolo della colazione di un alberghetto vicino a Washington, DC un giovane imprenditore mi chiese se secondo me fosse il caso di imparare due o tre parole di giapponese per ingraziarsi i clienti di Tokyo, gli risposi che gli sarebbe convenuto leggere Il paese delle nevi di Yasunari Kawabata in traduzione per capire i loro silenzi. Che sono un po' anche i nostri, quando ci mettiamo a leggere.

Il tuo ex-professore di lettere
Andrea

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