Il Circolo Democratico di New York, affiliato al PD italiano, venne inaugurato nel febbraio 2008 nella sala comune del piano dell'Empire State Building in cui aveva affittato l'ufficio centrale, una stanzetta di tre metri per tre, a prezzi astronomici (no, non fu l'idea migliore). Diedi due mesi di vita personale e professionale (rischiando grosso) per tenere Berlusconi lontano dalla Presidenza del Consiglio. Improvvisando comunicati, girando e-mail e telefonate da un capo all'altro degli Stati Uniti, tutti noi collaboratori racimolammo il doppio degli elettori previsti per la nostra candidata, che però non bastarono a farla eleggere, purtroppo. E nemmeno a tenere Mr. B. lontano da Palazzo Chigi. Così fu.
Nel Circolo, la candidata possedeva la tessera n. 1, io la n. 37, anche se mi iscrissi subito dopo. Insistetti per interrompere la serie numerica progressiva. Volevo la trentasette, perché mi ricordava un aneddoto dell'infanzia di Vittorio De Sica che avevo sentito raccontare dal figlio Christian. Il piccolo Vittorio era a spasso col babbo (Umberto, da cui Umberto D) quando per la strada li fermò il sarto, creditore da tempo: "Signor De Sica! Sono quattro mesi che avanzo soldi da lei! Lei mi deve pagare! Pagare!" Il vecchio De Sica, senza tradire il minimo disagio, prese di tasca un libretto, lo aprì con calma e quindi rispose: "Caro signore, lei è il primo dei miei creditori. Se mi umilia un'altra volta di fronte a mio figlio, io la sbatto al numero trentasette!".
Oggi, dopo aver restituito già da quattro anni la tessera del PD, mi sento proprio come il vecchio Signor Umberto De Sica. Cari dirigenti, me l'avete già detto: iscriviti, collabora, fa' propaganda... E ora mi fate scegliere tra la titubanza dignitosa, ma molto sospetta, di Pier Luigi Bersani e l'arroganza vuota e spaccona di Matteo Renzi? No, non ci siamo (anche se, parola di non-comunista, meglio i vecchi compagni che i compagnucci della parrocchietta). Magari sono anch'io un rottame, ormai; ma ho sempre il libretto in tasca, e la politica è finita ben sotto il numero trentasette.
Storie e storielle di uno spaesato in buona sostanza contento e, nonostante (il) tutto, allegro
29 novembre 2012
25 novembre 2012
Note (di lettere) italiane
Facebook, malattia lieve, ma fastidiosa (come il raffreddore). Due settimane fa ero tempestato di richieste sulle elezioni presidenziali (e non ho diritto di voto qui); ora è l'epoca delle primarie del PD e un'altra valanga di notifiche mi occupa il video, anche se ho restituito la tessera (n. 37) del Circolo Democratico di New York, alla fine del 2009. Poi, ogni tanto capita qualche discussione tra amici, di cui si impara a sopportare le bizzarrie (come loro sopportano le nostre). Affissi la risposta di Beppe Severgnini a chi gli chiedeva quale fosse la facoltà universitaria da scegliere: qualsiasi, basta che sia fatta con convinzione, ottimi voti, e nei tempi richiesti. Insomma, bisogna eccellere. Risposta sensata, pensavo (e la pensavo così già trent'anni fa, quando finii il mio liceo). Qualcun altro invece rispose: dipende, bisogna chiudere la Facoltà di Lettere e Filosofia, i cui corsi servono solo a ingrassare i docenti e a produrre spostati. Quel qualcuno aveva la laurea in lettere...
Me l'aveva già detto, quand'ero matricola (di lettere, con più di un sogno nel cassetto), uno studente al terzo anno di ingegneria: "C'è bisogno al massimo di dieci filosofi all'anno..." Chiaro, ogni studente d'ingegneria già al terzo anno sa esattamente che cos'è un filosofo e di quanti ce n'è bisogno ogni anno; altrimenti perché studiare ingegneria? "Dottore o ingegnere è più bello..." diceva il padre di un mio amico appena iscritto a economia e commercio. "Dottore? Non è medico e non è ingegnere..." mi disse il dirigente di un'azienda pubblica in merito a un laureato in scienze politiche. Consiglio un esercizio di nostalgia: prendete la foto di gruppo di una squadra sportiva maschile giovanile (magari di ragazzi borghesi) degli anni settanta. In che cosa si sono laureati poi i ragazzi? Ingegneria, medicina, ingegneria, medicina... (uno in giurisprudenza, ma proprio perché andava male in matematica). Per le ragazze, bastava il fidanzato ingegnere; per i ragazzi, invece, scegliere altro significava creare scandali in famiglia. La discriminazione tra facoltà e indirizzi di studio c'era; ed era pensante, a volte.
Tornassi al 1983, cambierei pochissimo: non lettere moderne, ma lingue e letterature straniere moderne (che già era l'alternativa di allora, magari ancora più viva, trascurata per motivi tristi all'epoca e futili oggi). Ora probabilmente insegnerei inglese nelle scuole superiori e abiterei a Ferrara, tra Via Arianuova e le mura, zona dalla massima concentrazione di scuole e insegnanti. Magari avrei visto meno mondo (ma qualche esperienza all'estero, con meno strascichi, ci sarebbe stata comunque), oggi avrei una rete di amici meno virtuale, magari scriverei di altre cose e forse la mia biblioteca di romanzi inglesi vittoriani avrebbe un uso migliore.
Se avessi trent'anni di meno oggi, invece, la scelta sarebbe molto più difficile. Mi ritroverei con le stesse passioni, ma con tutt'altre pressioni. Forse farei esattamente quello che avrei voluto fare, ma con tante incertezze in più e, soprattutto, con tanta fiducia in meno nel futuro (anche se già all'epoca immaginavo i ministri democristiani non molto distanti dalle posizioni di Elsa Fornero, ma solo più ipocriti). La discriminazione verso le facoltà umanistiche è ancora più forte: mi dicono che, alla Statale a Milano, lettere e filosofia è considerata la facoltà degli sfigati con la patente (non amo gli eufemismi). Immagino schiere di aspiranti ingegneri controvoglia, che aspirano a condizioni di lavoro ancora incerte, nel futuro (specie se alla guida della coalizione di sinistra finisce il giovin rottamatore, che magari ha tante buone intenzioni, ma mi sembra poco più della longa manus della finanza, che già sta al governo).
Il mio imbarazzo di fronte al presente giunge al culmine quando vedo come l'Italia cerca sempre più di sbarazzarsi della propria cultura. D'accordo sui prestiti dall'inglese per la tecnologia e altro, ma chiamare una sala di lettura di una facoltà letteraria "Reading Room" significa licenziare la lingua in blocco, come se non se ne volesse più sapere. Poi, filosofia e letteratura adesso hanno festival su festival; è giusto promuovere le opere e dare a lettori e autori l'occasione di conoscersi. Ma poi si legge davvero? Ci si lascia trasportare da un buon libro? Lo si rilegge? Fa riflettere? O tutto termina con lo scontrino e magari la firma dell'autore? Quanto, del libro, resta coi lettori? Quanto cambia le loro vite? Perché i libri servono proprio a questo: a farci vivere diversamente, a darci altre prospettive sulla realtà, a darci la pazienza di ascoltare e la voglia di cambiare.
Quello che temo di più, invece, è proprio il licenziamento della cultura europea, che non è quanto l'Europa abbia prodotto, ma come noi in Italia, Francia, Germania, Spagna ecc. siamo stati abituati a trattare i libri: come compagni di vita, cose nostre, punti di riferimento... Ne parlava vent'anni fa Daniel Pennac nel suo Come un romanzo, forse per far fronte al declino della lettura. Ecco, questo mi lascia veramente perplesso. Perché un mondo senza lettura diventa un mondo inconsapevole, dove ogni trasformazione viene accettata senza discutere e senza scrupoli, secondo l'imperativo darwiniano (che ogni tanto fa capolino in Facebook) per cui sopravvive solo la razza più adatta al cambiamento.
Pochi però ricordano che Darwin parla di selezione naturale e di grandi numeri di esseri viventi che non scelgono né chi né cosa sono e nemmeno (tantomeno) come comportarsi. Un giorno muore tutta la specie, salvo pochi individui nati diversi, ma più adatti a un ambiente diverso; e la specie riprende da lì. La società umana è un'altra cosa: è fatta di decisioni e di scelte individuali e collettive, di problemi da risolvere e da situazioni da affrontare (e nulla di questo, nulla, è presente nel mondo animale). Credo che sia giusto ricordarcene spesso: le cose umane si possono sempre cambiare. Se le scosse del terremoto o gli uragani si possono solo subire (salvo, nel caso dei secondi, riflettere su come l'inquinamento atmosferico abbia agito sulla direzione dei venti) l'economia ha degli agenti umani. Svegliarsi il mattino e sostituire la preghiera di rito con l'osservazione delle quotazioni in borsa o degli scambi monetari significa, veramente, aver reso le banche quello che erano gli dei in Grecia o il dio cristiano nel Medioevo: i grandi agenti trascendentali del nostro destino, ai quali dobbiamo ogni giorno l'omaggio quotidiano che scongiuri le loro ire ("It's the economy, stupid!"). E non solo hanno sempre ragione, ma la nostra ragione è la loro. Una buona metà dei commenti che leggo ogni giorno in calce agli articoli sul sito del Corriere della Sera va in questa direzione.
Magari leggere ci ricorderebbe che, tra i tanti diritti, abbiamo soprattutto quello di pensare autonomamente; e poi, in democrazia, di chiedere che questo nostro pensiero abbia una sua conseguenza nella realtà. È chiedere troppo? Non lo era, trenta o quaranta anni fa. Oggi lo può sembrare, ma bisogna chiederlo comunque. Fino alla fine.
Il mio imbarazzo di fronte al presente giunge al culmine quando vedo come l'Italia cerca sempre più di sbarazzarsi della propria cultura. D'accordo sui prestiti dall'inglese per la tecnologia e altro, ma chiamare una sala di lettura di una facoltà letteraria "Reading Room" significa licenziare la lingua in blocco, come se non se ne volesse più sapere. Poi, filosofia e letteratura adesso hanno festival su festival; è giusto promuovere le opere e dare a lettori e autori l'occasione di conoscersi. Ma poi si legge davvero? Ci si lascia trasportare da un buon libro? Lo si rilegge? Fa riflettere? O tutto termina con lo scontrino e magari la firma dell'autore? Quanto, del libro, resta coi lettori? Quanto cambia le loro vite? Perché i libri servono proprio a questo: a farci vivere diversamente, a darci altre prospettive sulla realtà, a darci la pazienza di ascoltare e la voglia di cambiare.
Goffredo Parise (1929-1984) al tavolo di lavoro |
Pochi però ricordano che Darwin parla di selezione naturale e di grandi numeri di esseri viventi che non scelgono né chi né cosa sono e nemmeno (tantomeno) come comportarsi. Un giorno muore tutta la specie, salvo pochi individui nati diversi, ma più adatti a un ambiente diverso; e la specie riprende da lì. La società umana è un'altra cosa: è fatta di decisioni e di scelte individuali e collettive, di problemi da risolvere e da situazioni da affrontare (e nulla di questo, nulla, è presente nel mondo animale). Credo che sia giusto ricordarcene spesso: le cose umane si possono sempre cambiare. Se le scosse del terremoto o gli uragani si possono solo subire (salvo, nel caso dei secondi, riflettere su come l'inquinamento atmosferico abbia agito sulla direzione dei venti) l'economia ha degli agenti umani. Svegliarsi il mattino e sostituire la preghiera di rito con l'osservazione delle quotazioni in borsa o degli scambi monetari significa, veramente, aver reso le banche quello che erano gli dei in Grecia o il dio cristiano nel Medioevo: i grandi agenti trascendentali del nostro destino, ai quali dobbiamo ogni giorno l'omaggio quotidiano che scongiuri le loro ire ("It's the economy, stupid!"). E non solo hanno sempre ragione, ma la nostra ragione è la loro. Una buona metà dei commenti che leggo ogni giorno in calce agli articoli sul sito del Corriere della Sera va in questa direzione.
Magari leggere ci ricorderebbe che, tra i tanti diritti, abbiamo soprattutto quello di pensare autonomamente; e poi, in democrazia, di chiedere che questo nostro pensiero abbia una sua conseguenza nella realtà. È chiedere troppo? Non lo era, trenta o quaranta anni fa. Oggi lo può sembrare, ma bisogna chiederlo comunque. Fino alla fine.
Iscriviti a:
Post (Atom)