In America volano pallottole, in Italia banane; e già capite di che sto parlando, visto che siete informati meglio di me. Un mio amico che ha letto Marx e ha l'Italia in scarsa simpatia direbbe che la tragedia americana si ripete nella farsa italiana (pazienza...). Oppure: conflitti di lingue e di culture tra l'Agloamerica pistolera e l'Italia contadina: non a caso in inglese non ci si tira la zappa sui piedi, ma ci si spara ("to shoot oneself in the foot"). Ma non voglio sorridere di fronte a tragedie personali e culturali come quella di Trayvon Martin (siamo in ginocchio, in molti sensi) e preferisco tacere sui quattro imbecilli che, tra manichini e banane, hanno offeso il Ministro Kyenge e messo alla berlina tutti gli italiani all'estero. Vi racconto invece qualche storia mia.
Prima storia A metà degli anni '90 insegnavo e studiavo in un dipartimento di lingue e letterature romanze, a cui facevano capo francese, italiano, portoghese e spagnolo. Molti dei miei colleghi di spagnolo venivano dall'America Latina e ricorrere all'inglese con loro mi sembrava un po' mistificante. Quindi cacciai la testa dentro una grammatica della lingua spagnola e cercai di ricavarne quanto potevo, esercitandomi con loro. Spagnoli e messicani mi rispondevano volentieri (e anche gli argentini, specie se accennavo qualche motivo di tango con la chitarra). Un collega di Puerto Rico, invece, mi rispondeva immancabilmente in inglese. Per lui non ero un collega che tentava di imparare la loro lingua: ero un bianco che, rivolgendoglisi in spagnolo, lo accusava di non conoscere l'inglese e di non essere quindi adeguato alla società anglosassone. Ma ero italiano! Peggio: ero un gangster da Padrino.
Seconda storia Sempre in quegli anni, come già ho raccontato, abitavo nel complesso di blocchi ad appartamenti Peabody Terrace, al 900 di Memorial Drive. Ogni tanto passavo qualche pomeriggio lungo il fiume Charles, vicino all'ansa dove il meandro si allarga e c'è spazio per un piccolo parco, che la domenica si riempiva di gente (soprattutto neri) a far merenda. La cosa mi ricordava l'epoca in cui anche noi, in tre o quattro famiglie, passavamo la domenica facendo merenda sul Po. Una domenica incontrai una signora nera che abitava vicino a Peabody Terrace; era lì coi suoi quattro figli (una ragazza e tre ragazzini più piccoli, mi sembra) e scambiammo due chiacchiere. Quando lei si incamminò verso la macchina, il figlio più piccolino rimase indietro. Memore di quanto mia madre si disperava quando la cosa capitava a me (cioè regolarmente) andai vicino al bimbo e cercai di fargli raggiungere la madre. Il bimbo iniziò a confessarmi: "Mi picchia sempre, ogni sera mi picchia sempre, qualsiasi cosa che faccia..." Non fece in tempo a finirmi la frase che un gruppo di giovani neri mi urlò da dietro: "EHI! TU! CHI SEI? CHE COSA FAI CON QUEL BAMBINO?" Risposi: "È il figlio della signora con cui ero qui a parlare; è rimasto indietro e lo riporto da lei". "MA AVETE SENTITO LO STRONZO? HA DETTO CHE LA CONOSCE! TU FAGLI GUARDIA, NOI ANDIAMO DA LEI". Mi lasciarono uno di loro a guardia, mentre gli altri andarono dalla madre portandosi il bimbo appresso. Stavano per andarsene, ma li richiamai: "Dico, ma chi credevate che fossi io?" "Di questi tempi non si sa mai"mi risposero senza quasi voltarsi. Mi sarei aspettato almeno un cenno di scusa, visto che mi avevano sospettato di pedofilia, che non è cosa da poco; e invece niente.
Terza storia Sempre in quegli anni, conobbi un medico dello Zimbabwe che aveva una certa simpatia per il fatto che fossi italiano, anche perché, così mi raccontava, doveva ai missionari italiani la sua scolarizzazione che poi gli permise di studiare medicina all'università. "Che cosa..." mi diceva, ma erano le sue uniche parole in italiano: i missionari gli avevan fatto scuola in inglese. Un giorno ci trovammo a parlare dell'immigrazione in Italia, fenomeno allora relativamente recente. Mi disse: "Sono fiero che l'Africa vi restituisca in pieno il danno che voi europei avete arrecato cento e passa anni fa". (Debbo però aggiungere che conobbi poi un altro medico dello Zimbabwe, peraltro direttore sanitario di un ospedale, che aveva fatto una carriera parallela: scolarizzato dai missionari, ma in italiano, che parlava ancora molto bene, e quindi laureato in medicina all'Università di Padova, molto più saggio e discreto...)
Comincio dalla terza storia. Volendo fare la punta ai chiodi, bisognerebbe dire che i danni andrebbero inflitti con maggior vigore alla Francia e all'Inghilterra (anche se l'Italia crispina e mussoliniana si macchiò di colpe gravi); la Francia in una certa misura li ha subiti, l'Inghilterra meno. Ciò, credo, non per ingiustizia storica, ma per insufficienza del modello etico-psicologico della vendetta. Chi vuole vendicarsi perde già in partenza perché, offendendosi, concede immediatamente un potere superiore all'altro; e se considera l'altro più forte non riuscirà mai, mai a restituirgli l'offesa, che invece devierà su un soggetto più debole. Come dico sempre, i calci restituiti a forza finiscono sempre sul culo sbagliato. Ho fin troppi esempi a portata di mano. L'imperativo di Gesù "porgi l'altra guancia" presuppone non la condanna alla sofferenza, ma, al contrario, una guancia molto più forte della mano che la colpisce: "Forza, picchia fino a stancarti! Io non mi sposto nemmeno". Non a caso, a pp. 31-32 di 101 storie zen (Piccola Biblioteca Adelphi) Gesù viene definito "quasi un Buddha". Le offese non vanno raccolte (e in questo il Ministro Kyenge ha dato un'ottima prova di sé, credo).
Nella seconda storia, si nota il grande vantaggio del pregiudizio razziale: fa risparmiare tempo. Vedendomi col bambino, i giovani neri pensavano di dover agire subito per prevenire un attacco pedofilo e sono intervenuti d'urgenza, senza chiedermi spiegazioni; e li posso anche capire. Però, quando hanno accertato i fatti, non mi hanno chiesto scusa; e questo non per mancanza di educazione, credo, ma perché non pensavano di essersi sbagliati. Io per loro non ero vittima di un sospetto ingiusto: ero l'Altro, colpevole oltre ogni prova contraria di godere più di loro e a scapito loro, che è il presupposto di ogni razzismo. E l'Altro è sempre pronto all'attacco, quindi bisogna fermarlo prima (e magari attaccarlo prima, come predicava George W. Bush nella dottrina del "preemptive strike").
Il razzismo non è una guerra tra poveri, ma tra micro-abbienti che si ritengono continuamente esposti all'Altro; e la soluzione è la stessa: colpire prima. Per quale ragione? Per appropriarsi dei vantaggi dell'Altro. E se va male? Ci si riprova. Ma magari l'Altro non gode mica poi così tanto: se si va a vedere... Non c'è tempo: quando sei andato a vedere, l'altro ha già attaccato e distrutto. La guerra artefatta si mantiene con lo stato di emergenza. Siamo sempre in trincea, come mi ricordava il collega di Puerto Rico.
Facciamo la pace? Non è così semplice. Oggi si vive d'ansia, si ha paura di perdere domani quello che si è conquistato vuoi a fatica negli anni vuoi anche solo per circostanze favorevoli. Ed è anche di queste paure che vive la società capitalista: con l'odio e la concorrenza si spende e si fa PIL, con la pace e la solidarietà no. E gli episodi di violenza? Conseguenze inevitabili: se vuoi la frittata, devi rompere le uova. Perciò non basta opporsi al razzismo in astratto, credo: bisognerebbe entrare in cucina e chiedere con forza chi vuol fare quale frittata con le nostre uova. Perché le uova, specie nel mondo globalizzato, sono proprio di tutti (e, come diceva Woody Allen nel finale di "Io e Annie", ne abbiamo tutti un gran bisogno).
Concordo perfettamente: "bisognerebbe entrare in cucina e chiedere con forza chi vuol fare 'quale' frittata con le -nostre- uova. ". La chiave è tutta qui
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