07 marzo 2014

Un premio allo spietato.

Non ho mai amato il concetto di "orgoglio patriottico", perché chiunque conosca appena la propria storia nazionale sa benissimo che la bilancia pende sempre dalla parte delle vergogne. Conoscere la propria identità storica nazionale significa, spesso, dover elaborare un bel po' di traumi. Come m'è capitato di scrivere altrove, italiani non si nasce, ma si diventa (con pazienza e fatica). Per questa ragione sto lontano dagli elogi e dalle stroncature. Sono atteggiamenti che non mi si confanno da tempo. "Non dovresti giudicare, dovresti capire", mi diceva il mio professore di lettere del liceo nei rari momenti in cui ero più dandy di lui (che giudicava quasi sempre tutto senza pietà).

Certo, l'Oscar a La grande bellezza mi ha riempito di soddisfazione. Paolo Sorrentino è un regista intelligente e una persona gradevole e modesta (almeno lo era quando ho avuto occasione di stringergli la mano qualche anno fa). Il premio è del tutto meritato, penso io. Ho letto un po' di apprezzamenti (facile, ma comunque necessario, il paragone a La dolce vita di Fellini) e qualche stroncatura (facilonieria... forse, ma è anche l'Italia di oggi) e, rimandando alle mie lezioni tra qualche settimana le analisi più approfondite, mi limito a qualche appunto.

Il titolo è chiaramente paradossale e ironico: non c'è molta bellezza rimasta nei comportamenti della Roma e dell'Italia di oggi, di cui Jep Gambardella è un po' la cartina al tornasole. Assieme a lui, diventiamo testimoni di tutte le storture grottesche della Roma che conta, che è festaiola, volgare, prepotente, presuntuosa e superficiale. Un brutto inferno, insomma, dove i bimbi vengono costretti a produrre finte opere d'arte (poco distinguibili dalla spazzatura, ma la "trash art" fa moda), le suore si riempiono di botulino (e i chirughi plastici dispensano sorrisi e consigli e fanno cassa), i cardinali dal volto sofferto e rugoso non parlano di fede, ma di cucina, e gli unici autentici sono Ramona, una spogliarellista un po' fuori età (ma niente affatto fuori forma, diciamocelo) e minata dal male (Sabrina Ferilli) e Romano, un commediografo sfortunato (Carlo Verdone). Molto probabilmente Jep non ci sta bene; ma allo stesso tempo non riuscirebbe a vivere altrove, un po' come l'Enrico IV di Pirandello, che, dopo una vita passata a fingere d'essere l'imperatore dell'undicesimo secolo, è talmente abituato alla luce fioca delle lampade a olio da non poter sopportare la luce elettrica.

L'unica bellezza è in qualche paesaggio romano, specie nell'alba sul Tevere delle inquadrature finali (ma sulla dolcezza dei crepuscoli romani la dice lunga Vincenzo Cardarelli che, in un racconto di Ennio Flaiano, esce dal cinema al tramonto e dice che un cielo così fa passare il suicidio in secondo piano). Come dire: nonostante tutto... Certo: Roma è un patrimonio mondiale di case, prospettive, accenti, angolazioni e situazioni umane. Ma il film è altra cosa: uno sguardo spietato su quella che è stata l'Italia degli ultimi anni, la promessa di una democrazia politica e culturale mai avverata (la scrittrice-giornalista promossa solo a furia di letti di partito) e di cui si può essere solo testimoni stanchi, disincantati e comunque colpevoli. Se il giovane Marcello Rubini della Dolce vita vuole scoprire il mondo della capitale e comunque diventare scrittore (rinuncerà a tutto solo dopo il suicidio atroce del suo mentore Steiner), Jep è il suo rovescio perturbante.

Non c'è una vera e propria vicenda, nel film, anche perché, a differenza di Marcello nella Dolce vita, Jep non ha una sua storia personale. Non riusciamo a immaginarcelo altrimenti che come lo vediamo: malevolo e perspicace, cinico ma non insensibile, vecchio che fa finta di essere giovane come da giovane avrà fatto finta di essere rotto a tutte le esperienze. È di certo il riflesso (preoccupante) dell'Italia di oggi. E, se so bene quanto faccia comodo agli stranieri ritenere l'Italia un museo a cielo aperto con ristorante annesso e gli italiani un branco di faciloni inaffidabili, spesso intelligenti, ma di norma inutilmente furbi (è un pregiudizio che mi aspetta subito fuori dalla porta di casa ogni mattina), non penso che questo sia il contenuto del film. È invece, dicevo, uno sguardo spietato sulla parte più rappresentativa del paese, cioè quella che appartiene al mondo della rappresentazione mediatica, quella che la gente segue tutti i giorni e a cui fa riferimento nelle proprie abitudini quotidiane: la televisione, che magari è un segno di benessere, ma mina decisamente il buon vivere (Pasolini era un profeta e, purtroppo, lo sapeva). Vero: non si vedono i politici, ma ci si aspetta sempre che ne spunti uno dietro l'angolo.

C'era bisogno di un po' di spietatezza in un paese fatto di lustrini, assoluzioni e vigliaccheria redenta in televisione, in cui si conta solo se si appare sul piccolo schermo e in cui, fino a qualche anno fa, le ragazzine sognavano di fare le veline e indossavano quegli orrendi pantaloni a vita bassa per mostrare un po' di mercanzia ai talent-scout di turno (così mi raccontavano i miei colleghi delle scuole medie superiori, che raccoglievano le confessioni delle stesse; e poi, il preside del liceo di Naomi Letizia lodava la prossimità della fanciulla al vecchio marpione al potere).  C'è di che nausearsi; e infatti il commediografo interpretato da Carlo Verdone lascia Roma e ritorna al paese d'origine. Lì, probabilmente, troverà un'altra Italia, più difficile (oltre l'orlo della crisi) e più interessante; e capiterà proprio a fagiolo, perché bisognerebbe raccontare anche questa Italia (specie a chi abita fuori). Aspettiamo notizie proprio da lui.

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