19 novembre 2015

Chiedo scusa se parlo di Parigi

Lo so, non c'è solo la Francia: c'è il Libano, c'è l'aeroplano russo, ci sono i centoquarantasette studenti del Kenya dell'aprile scorso, c'è la Palestina, c'è il Messico. Le zone di guerra e di violenza al mondo sono tante (per non parlare dei disastri ecologici, che finiranno con l'intossicare il mondo intero). Chiedo scusa, però, se parlo di Parigi; e non nel senso di un discorso politico sul terrorismo, ma quello che mi viene. Perché, a differenza di Giorgio Gaber, non ho paura di dire che si tratta di una cosa mia; e forse di una specie d'amore.

Non sono mai stato un gran viaggiatore, se non per obblighi professionali. Di solito arrivo in posti che conosco già per aver messo la testa dei libri che ne parlano o nei film (m'è successo nel New England, con le poesie di Robert Frost e di Emily Dickinson) o per averli studiati. Conoscevo Roma dai libri di storia e Londra dalle lezioni del Professor Romano Anderlini, il mio eccezionale insegnante d'inglese del liceo: sapevo che cosa cercare e che cosa trovare già dalle mie prime visite.

Parigi no: là ero un autodidatta involontario, cioè avevo letto per conto mio, in altri tempi, la letteratura di Parigi Capitale dell'Ottocento, specie Balzac e Baudelaire, e avevo visto il cinema che parla della Parigi del dopoguerra (specie I 400 Colpi e gli altri film con Jean-Pierre Leaud di François Truffaut, che rivedo ogni volta che ho voglia di starmene solo con me stesso). E in quella strada di fruttivendoli, librai e bar chiamata Rue Daguerre, all'incrocio con Rue Boulard, nel XIV distretto, dove avevo per puro caso preso alloggio in un albergo di fronte a un negozio chiamato "Paris accordeon", mi sembrava di rivivere una sensazione sedimentata da tempo in qualche angolo della memoria; come se per anni quel posto mi aspettasse, come se non mi fossi mai mosso da lì. Mi sembrava di essere a casa. Era l'ora di pranzo. M accomodai in un bistrot e, dopo la bistecca con l'insalata e la birra, scrissi tutto il pomeriggio. L'indomani, come quasi sempre, dovevo intervenire a un congresso.

Riconoscevo Parigi per tutto quello che per me aveva rappresentato: l'idea di una vita interessante e allo stesso tempo distesa; moderna, ma con una memoria storica ancora viva; con una cultura autorevole, ma allo stesso tempo vissuta anche dalla gente, come se la letteratura fosse cosa comune (e infatti a leggere erano tanti, al Jardin du Luxembourg, la domenica in cui aspettavo, leggendo Georges Perec, la mia collega francese che leggeva Giorgio Caproni).  E infatti, pochi giorni dopo l'assassinio dei redattori di Charlie Hebdo, i francesi si rimisero a leggere il Trattato sulla tolleranza. 

I parigini lavoravano, chiaro: li vedevo cambiar treno al mattino, tra metropolitana e linee pendolari (però, curiosamente, il métro aveva le ruote di gomma per attutire il chiasso, a cui invece a New York si era abituati). Però sembravano anche avere il tempo di vivere, di passeggiare per le strade la sera, di parlare, di conoscersi, di avere una dimensione umana e sociale. A New York si viveva per gli appuntamenti importanti, segnati nel calendario, apposta per compiacere la high society. A Parigi si poteva improvvisare ogni giorno.

Sono finiti sotto attacco la socialità e il piacere di vivere, i grandi rimedi alla fretta e allo stress che ormai ci rendono schiavi. Sappiamo bene che gli assaltatori armati di venerdì 13 novembre sono solo una propaggine più o meno consapevole di un sistema per cui la vita umana e sociale è sempre meno importante e gli individui sono solo depositi provvisori di denaro da rimettere in circolazione il prima possibile per far salire le quotazioni in borsa. Perché la macchina deve andare avanti. E infatti stavolta le bombe sono arrivate sulla gente in festa, sui ragazzi al concerto rock, sulle famiglie a passeggio. Su noi tutti.

Perciò chiedo scusa se parlo di Parigi, che per non è una città, ma un'idea di libertà vera e di vita comune. E so che è in pericolo dappertutto nel mondo (a Beirut, a Parigi, a Roma, al Cairo, a New York, in Palestina). Perché non è solo una festa mobile, come diceva Hemingway, ma anche il senso del nostro vivere.

Poscritto del 23 novembre: no, con le bombe si distrugge e basta. No.

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