Lo sapete: adoro la campagna e adoro il verde della Pioneer Valley, dove abito ora. Ciò che però non smetterà mai di sorprendermi è che, a parte il centro stretto delle cittadine più grandi, come Amherst o Northampton, appena un chilometro oltre l'ultimo palazzo le case cominciano ad avere attorno cortili enormi. A parte il mio vecchio domicilio al 421 di North East Street, che è una vecchia casa di campagna con la tenuta attorno, qui ci sono interi quartieri di vie tortuose e case sparse dove anche una modesta villetta a quattro stanze (non però quella che mi piace, sulla strada di Hadley) poggia su un ettaro di cortile.
Il mio amico Rossano, cultore di storia, mi ha detto che, secondo lui, la concentrazione e la vicinanza tra le case dei paesini italiani qui manca perché non c'è mai stato il pericolo di invasioni periodiche o di scaramucce coi villaggi confinanti; e ha ragione. Qui, una volta debellate le popolazioni indigene (una delle tante vergogne che l'America bianca di solito non ammette), i padroni non hanno mai dovuto temere nessuno. L'ultima guerra combattuta sul suolo statunitense fu quella di secessione, terminata nel 1865. Il resto è stata pura esportazione, tant'è che ogni tanto si scorge qualche locale un po' spartano che inalbera la scritta VFW: Veterans of Foreign Wars. I reduci delle guerre del mondo si trovano lì. I caduti, invece, sono sepolti al cimitero militare di Arlington, a Washington, in un campo enorme. E chissà quanti altri ancora ne arriveranno. Lo spazio, qui, si spreca.
Quindi non mi sorprendono affatto i commenti divisi all'idea di Beppe Severgnini espressa di recente in un suo articolo nel New York Times in cui suggerisce di destinare le masse immigranti ai terreni incolti. Agli americani sembra una soluzione intelligente, agli italiani un'emerita fesseria. La conclusione del Beppe bilingue è la solita: americani pragmatici e ottimisti e italiani menagramo e inconcludenti. Immaginavo... comunque, lo lascio pontificare. Almeno sa bene l'inglese e non ricorre alle solite supercazzole; di questi tempi non è poco.
Faccio osservare però che, come dicevo sopra, qui si sta larghi. Un mio collega conservatore di scienze politiche qualche anno fa così disse dei messicani: "Ship them to one of those square states..." Ovvero: spediscili in uno di quegli stati rettangolari, cioè nel bel mezzo del paese, lontano dalle coste. Lo stato più popolato è la California, con 38 milioni di abitanti su quasi 424 mila chilometri quadrati di territorio geograficamente molto più ospitale di quello italiano, che su 301 mila chilometri quadrati alloggia 60 milioni di persone. I coefficienti di densità al chilometro quadrato sono 95 per la California e 201 per l'Italia. Se in California cominciasse l'immigrazione in massa, mi sa che i californiani perderebbero il loro proverbiale sorriso e metterebbero le mani al fucile, come del resto già fecero negli anni venti e trenta, contro i loro connazionali che lasciavano zone meno fortunate.
E poi, anche se non sono un esperto, so che non è saggio per l'ambiente riempire tutti gli interstizi. La stessa bonifica di buona parte delle Valli di Comacchio portò i suoi indubbi vantaggi, ma inferse anche un brutto colpo all'ecosistema. L'ambiente ha bisogno delle sue pause, dei suoi incolti, dei suoi spazi spontanei e naturali; gli si reca danno comprimendolo con l'insediamento ossessivo. Così almeno ricordo dai tempi del mio vecchio esame di geografia (12 dicembre 1984), quando l'argutissima professoressa Eugenia Bevilacqua ci raccontava che proprio in California, già allora, si stava dando fondo ai depositi di acqua fossile, per definizione non rinnovabili; ora c'è l'emergenza acqua; qualche dubbio sulla saggezza dei residenti viene. Ai raffinati lettori del New York Times, me compreso, è quindi il caso di ricordare che non si possono sempre tenere i problemi fuori casa. In quell'ettaro di cortile possono capitare cose strane. Col caldo fuori stagione, per esempio, piove poco anche nel New England e l'erba rinsecchisce nel cimitero di Hadley; chissà in quello di Arlington.
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