A metà della mia quarta liceo scientifico la mia compagna di banco, di ritorno da una gita di una settimana in Egitto con la nonna, mi annunciò con orgoglio di avere ricevuto un’offerta di matrimonio da un egiziano in cambio di cinquecento cammelli; e di averci riso sopra con la nonna, a cui il pretendente egiziano s’era rivolto. Meglio così, le risposi: come avrebbero fatto a riscuotere cinquecento cammelli all’ufficio postale di Bondeno? Era bello poterne ridere: altri—altre—non ridevano affatto.
Sedici anni dopo, infatti, verso le quattro di un pomeriggio di luglio, mentre bighellonavo davanti a casa, al 900 Memorial Drive di Cambridge, Mass., noto anche come Peabody Terrace, complesso di casamenti dall’architettura vagamente sovietica di proprietà della Harvard University, vidi arrivare una schiera di ragazzetti più molto più giovani di me dal vago aspetto mediorientale. La più sfrontata mi si fece di fronte a mo’ di sfida e mi chiese se ci fossero appartamenti in affitto. Sono tutti in affitto, risposi, ma solo per il personale affiliato all’università. Lei non ne faceva parte, ma non voleva sentire ragioni: doveva a tutti i costi vedere l'impiegato supervisore del complesso e parlargli. Conoscevo di persona Kurt, tanto buono e paziente, e proprio per questo volevo evitargli l’impiastro di una postulante petulante e fuori luogo, che non avrebbe voluto sentire ragione.
Più indietro, in tono dimesso, stava seduta sul pilastrino una ragazza più grande di corporatura e in tutta probabilità più avanti con gli anni, che mi chiese: “Lei è alla Harvard?” Sì, le risposi, sono nel dottorato in lingue romanze. “Complimenti!”, mi rispose: sembrava veramente interessata. “E quante lingue parla?” Italiano e francese, dissi, e sto imparando lo spagnolo; sapevo un po’ di portoghese, ma l’ho dimenticato quasi tutto; ne so appena per cantare un po’ di samba e bossa nova con la chitarra. “Lei suona anche la chitarra? Che bello!”. La guardai bene: era una Claudia Cardinale un po’ più in grande e, almeno per me, una meraviglia a guardarla. Mi tentava l’idea di prendere la chitarra e improvvisarle una serenata, ma l’amica sfrontantella cercò di tagliar corto—voleva trovar casa prima di sera—e mi diede il suo biglietto da visita per telefonarle quando sapessi di qualcosa. L’altra scrisse il suo nome sul retro: Elahe. Venivano tutti dall’Arabia Saudita.
Chiamai Elahe due giorni dopo, a metà mattina. Restammo quattro ore al telefono a parlare un po’ di tutto e prendemmo appuntamento per un caffè quattro giorni dopo, al bar dell’Hyatt Regency, poco lontano da casa mia. Le piaceva il lungofiume e la prospettiva. Di fronte a un cocktail di cui non ricordo il nome – mi sa che sarei un pessimo barista – Helah si rivelò una ragazza di enorme buonsenso e coraggio. Era la maggiore di tutti i suoi amici e doveva un po’ fare la mamma a tutti, specie a Jaleh (più o meno), che con la sfrontatezza nascondeva tutta la sua difficoltà a trattare col mondo.
In un mondo che alle donne non permetteva (e permette poco tuttora) di mettere il naso fuori dalla porta di casa, Elahe voleva diventare infermiera professionale e fare carriera nella gestione sanitaria. Non voleva però – ci teneva a dirlo – diventare un uomo in gonnella: voleva restare donna e avere una sua famiglia, col tempo, cercando di portare tutti i suoi progetti a termine. E voleva tornare in Arabia Saudita: era il paese che amava e in cui vedeva il suo futuro. Per uscirne e seguire i corsi del Master in Public Health della Northeastern University, però, aveva dovuto falsificare nel passaporto la firma di consenso del fratello, che era il maschio anziano della casa dopo la morte del padre. Intelligente, bella, saggia e coraggiosa: l’avrei sposata sul momento, sfidando Alì Babà e i quaranta ladroni.
Era meglio dissimulare, però, con un po’ di distacco inglese. Risposi con un sorriso ignaro: che mondo strano, dissi, ci mancherebbe solo che offrissero alla tua famiglia cinquecento cammelli per poterti sposare, come è successo a una mia amica. “Quando è capitato?” mi chiese. Sedici anni fa, le risposi. “I cammelli non si usano più: ora ci sono le auto sportive”. Già, a lei era successo per davvero: per assicurarsi Elahe, una famiglia araba benestante aveva regalato al fratello di lei una Maserati. Uscire dall’Arabia Saudita le era costato tanti sotterfugi proprio per quell’impegno preso; altrimenti il fratello le avrebbe firmato il passaporto volentieri.
“Quando lo sento al telefono gli chiedo: allora, la macchina corre? Va bene?” Il sorriso le si era rattristato e lo sguardo piegò per un attimo a sinistra verso il basso. “Anche i miei cugini in California non fanno altro che dirmi che il mio dovere è di tornare e sposarmi. Non ne posso più”. Poi alzò la testa: “Ma ora sono qui! Questa è la mia vita, questi sono i miei studi! Voglio fare il Master!” Le tornò il sorriso pieno e la testa alta. Era meravigliosa.
E infatti, visto che s’era fatto tardi, le proposi di accompagnarla alla stazione della metropolitana. I marciapiedi di Memorial Drive erano enormi ed era normale percorrerli in bicicletta. Perciò la invitai ad accomodarsi sulla canna, per far prima, come facevamo con le nostre compagne di liceo per tenerle tra le braccia per qualche centinaio di metri dalla piazza a casa (e loro, spesso, venivano in piazza a piedi anche per questo). “Oh, ma io non ho mai fatto una cosa del genere! Non sono mai stata su una bicicletta!” Già, però rideva meravigliata e teneva gli occhi fissi sul congegno meccanico a due ruote su cui veniamo alla luce noi padani (no, Bossi, tu non c’entri: fuori!). “Va bene, ma va piano, mi raccomando”. Partii con calma, pedalando piano, e presi appena un po’ di velocità lungo il rettilineo. Elahe rideva di gioia e non smetteva mai, finché non disse: “Grazie! Grazie, ma adesso basta! Basta, là!” Una volta scesa alzò le braccia ridendo: “Oh, non mi era mai capitato! Ma guarda! Mi sembrava di volare!”.
La rividi solo qualche giorno dopo, quando mi chiese di passare al bar sotto casa sua per un caffè. Mi precipitai; e in bicicletta, chiaro. Mi avvicinai un po’ e lei mi passò appena una mano dietro la nuca. Non era mai stata così vicina a un uomo, mi disse; ma mi disse anche che non voleva darmi illusioni: aveva un dovere da compiere e l’avrebbe fatto di certo, anche se non era affatto innamorata. Lo sei mai stata? Le chiesi. Sì, rispose, di due persone che non avrebbe mai potuto raggiungere: il suo medico e il principe d’Arabia. No, non era per me comunque. La sentii qualche giorno dopo: andava a Los Angeles a trovare i suoi cugini. Capivo che sarebbe rientrata e avrebbe seguito il suo destino. Per me, cinquecento cammelli si spezzarono in un secondo. E vorrei vedere questa mia storiella volare per i cieli dell’Arabia fino a Elahe, dovunque e con chiunque sia, per farla sorridere e ridere ancora.