15 dicembre 2012

La vita alla finestra

Il figlio della segretaria di scuola prima ha ammazzato la madre, poi è andato a scuola, è entrato e ha fatto un'orrida strage di bambini; poi si è ucciso. Ormai tutti lo sanno, tra telegiornali, radio e internet. Non aggiungo altro alle cronache di chi, per ovvie ragioni, è meglio informato di me e vi ha già raccontato quanto è concesso ai media di raccontare. E, purtroppo, è già successo altre volte dall'eccidio alla Columbine High School (1999) in poi (come dimostra l'elenco completo in inglese).

Non penso di avere strumenti privilegiati di giudizio. Certo, sono qui da quasi vent'anni e mi piace, da sempre, stare alla finestra e vedere la gente che passa e come vive e, naturalmente, vivere assieme a loro e farmi riconoscere. Ogni tanto, di fronte a certi episodi, mi pongo delle domande (come penso farebbero tutti).

Per esempio, solo nel 1994 (e già avevo trent'anni), dopo un anno di permanenza americana, venni a sapere dell'esistenza del date-rape, cioè della violenza sessuale usata dai ragazzi sulle ragazze con cui uscivano la sera quando queste non si volevano concedere. Orribile, pensavo, specialmente dopo che una mia studentessa mi aveva confessato di esserne stata vittima: l'ho vista devastata in poche ore.

Orribile e insensato, pensavo. Mettendo con grande difficoltà tra parentesi lo schifo per il godimento malevolo della coercizione (ragionare costa) mi son chiesto: che cosa potrà mai spingere da un lato a rovinare tutta una serata di buona compagnia (e magari un futuro rapporto, di qualsiasi tipo) con un atto di violenza e dall'altro, se il fine effettivo è l'atto finale magari da ottenere anche con la violenza, perché ore e ore di fastidiosa ipocrisia?

Cercando una risposta, pensavo ai miei anni del liceo e dell'università. Le passioni c'erano, com'era giusto. Ma non avremmo mai lontanamente nemmeno immaginato una cosa del genere. Ci conoscevamo, ci stavamo più o meno simpatici, a volte ci frequentavamo, più o meno intensamente, ma (almeno in generale) ci saremmo mai fatti del male così? No, perché erano le nostre innamorate, ma anche le nostre amiche, le nostre compagne di corso, le sorelle e le figlie di gente a noi cara... Erano la nostra vita, la vita personale, fatta di incontri e di momenti non di...

E qui mi venne la parola chiave: risultati. La vita americana è tutta orientata verso il raggiungimento di risultati. Si vive per lavorare, per mandare avanti una macchina che deve girare comunque, sempre, anche se non è attaccata a niente (o almeno a niente che porti vantaggi effettivi a noi). Mi ricordo, quasi trent'anni fa, due studenti americani d'estate in Italia, che seguivano corsi in un programma universitario estivo (straniero) non perché a loro piacessero le materie, ma perché non avevano trovato un lavoro estivo e dovevano dimostrare di aver impiegato produttivamente il loro tempo: un 'buco' nel CV sarebbe risultato sospetto ai futuri selettori aziendali. Il risultato va ottenuto a ogni costo, salute compresa, e si giustifica in quanto tale.

Per carità, nulla di male nel raggiungere risultati: anch'io ho i miei obiettivi nella vita. Ma il prezzo non può essere la perdita dell'amore per la vita stessa, che è fatta di passaggi, di transizioni, di incontri e, soprattutto, di presente. Ogni tanto bisogna anche viverlo, il presente, quella gente in strada, fuori dalla finestra, che passa e che saluta, che non chiede altro che essere riconosciuta e accettata per quello che è, nella sua dignità, nella sua immediatezza. È poi tanto illogica, quest'allegria? È tanto contraria agli scopi severi da raggiungere? O non dovrebbero, questi scopi, trovare una loro sintesi ultima nel vivere meglio?

Chi ha fatto strage di bimbi per poi ammazzarsi egli stesso aveva già perso la vita da tanto tempo. Già da tanto non viveva più e non poteva sopportare che gli altri--i bambini, soprattutto--potessero vivere veramente. Non possiamo permettere che ci tolgano l'amore per la vita. Ma amare la vita significa anche  (soprattutto?) avere il senso di poterla veramente cambiare, di poterne essere veramente partecipi, di poter essere felici con gli altri perché sono felici anche gli altri, perché o si è tutti veramente liberi o è la solita libertà obbligatoria, per cui non è libero nessuno.

Molti anni fa, per tutto questo, qualcuno era comunista, diceva Gaber. Io non lo sono mai stato né lo sono tuttora. Mi limito ad apprezzare le lacrime di Barack Obama ("e se non piangi, di che pianger suoli?" Inferno, XXXIII, 42); so che sono sincere, ma non voglio che siano vane. E potrebbero esserlo, se non sappiamo amare e cambiare veramente la vita.

4 commenti:

  1. Se questa è la struttura sociale, questi sono gli esiti; peccato che noi la vogliamo copiare pedissequamente.
    L'unica differenza è che in Europa la vendita delle armi non è (ancora) libera, ma ci penserà il trattato di Lisbona.

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  2. Finché possiamo, DOBBIAMO RIVENDICARE IL DIRITTO DI FARE ALTRIMENTI!

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  3. Andrea condivido pienamente il tuo pensiero, le tue parole....ma tu sei, oltre che un "essere civile", anche una persona ricca di sensibilità e per questo sai vedere la bellezza e la preziosità della vita. Non è lo stesso per coloro che non sono stati educati a saper rispettare il prossimo e le relative differenze. Penso che la diversità sia ancor mal tollerata: molto più semplice eliminarla. Grazie per questa riflessione, un caro saluto.

    Monica

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    1. Dovrebbe esserci una scuola e una società capaci di dare l'educazione a cui fai riferimento, Monica. E qui, purtroppo, spesso non c'è.

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