20 aprile 2020

Donne al potere e paesi che vai: risposte a Martina Sorrentino, Giulia Radi e Andrea Mangiacristiani

Quando avevo vent'anni, l'internet non c'era. C'era solo l'edicolante e in quattro compagni d'università compravamo ciascuno un giornale diverso e ce li scambiavamo in aula studio a Palazzo Maldura. I ventenni di oggi sono navigatori infaticabili e s'informano di certo meglio, ma sono a maggior rischio di bufale. Perché? Perché non ci sono pasti gratis, al mondo, quindi i siti gratuiti sono sempre sospetti. Ciononostante, va bene anche leggere Forbes. E passo al dunque.

Mi scrive Martina Sorrentino che, nelle sue scorribande curiose tra le notizie del mondo (vedo però soprattutto Italia e Stati Uniti, che poi sono anche le mie entità di riferimento), riconosce comportamenti costanti: supermercati svuotati, paura, fuga dalle città infette verso la tranquillità del locus amoenus, che si chiami Sardegna o Hamptons. Forse è vero che tutto il mondo è paese, ma, ancora una volta, meglio leggere il foglio di sbieco. 

Non sono un medievista, ma, da quando leggo il Decameron con una certa regolarità, ho sempre accostato, alla splendida e credibilissima descrizione della peste, la totale improbabilità della fuga in campagna delle sette ragazze e dei tre giovanotti: nel Trecento certe cose non capitavano. L'idea della sana vita di campagna è frutto di secoli di egemonia culturale urbana, in cui l'epidemia è l'unico freno alle attività della città, da Boccaccio a Manzoni ("Scappa, scappa, untorello. Non sarai tu che spianti Milano") e Moravia ("L'epidemia", da Racconti surrealistici e satirici). Ergo: occhio all'immaginario, perché spesso prende il posto del reale. 

Andrea Mangiacristiani ha ragione quando scrive che Forbes Magazine tira un po' un colpo al cerchio e uno alla botte, perché da un lato elogia Erna Solberg, che, rivolgendosi ai bambini, ha aiutato tanti genitori a gestire tante crisi familiari, dall'altro non nomina nemmeno il robusto welfare che sta alla base del sistema Norvegia. A me, che leggo sempre di sbieco, irrita, ma non sorprende, che l'araldo del neo-liberismo deifichi la mamma di Stato e non parli dello Stato-Stato, o addirittura che pontifichi che l'insegnamento online debba diventare il nuovo standard didattico, tanto per allargare il parco degli studenti-clienti-paganti. Ogni crisi è buona per riorganizzare la scacchiera; ed Erna Solberg è conservatrice: avrà la stessa empatia per gli operai adulti? Il fatto è che le riorganizzazioni avvengono sempre dall'alto, da chi ha posizioni di privilegio e, come dice un noto mafioso della letteratura, cammina sulle corna degli altri.

Sulla sensibilità collettiva dei paesi asiatici scrive invece Giulia Radi, vedendo in Taiwan e nella Cina comportamenti più responsabili socialmente e attribuendoli alle culture più attente all'intero corpo sociale e meno alla persona. Le rispondo che il confine tra responsabilità collettiva e libertà individuale è da negoziare ogni volta e con decisa determinazione. Conosco poco la Cina, ma quando l'industria cinese Fuyao ha aperto la fabbrica a Dayton, Ohio, rilevando gli stabilimenti chiusi della General Motors, s'è capito bene il conflitto tra la cultura della partecipazione individuale degli operai americani e quella dell'autorità indiscussa e della conformazione al tutto (gestito poi dalle autorità) dei padroni cinesi. Ne parla il documentario American Factory, disponibile su Netflix. Né mi sorprende l'app che controlli gli spostamenti delle persone, anche perché mi dicono che la Cina sia una dittatura. Mi sorprende invece che questa app di controllo, senza il minimo scopo terapeutico, sia stata accettata in Italia, dove, non contenti degli arresti domiciliari della popolazione, si è arrivati al controllo capillare e alla distruzione delle libertà individuali. Avremo un potere centrale che saprà in quale cesso andremo a pisciare, ma non sarà in grado di fare niente se ci saremo ammalati; e magari ne sarà addirittura lieto. 

Infamia, inganno e tradimento: a una certa età, tutto il mondo è Pavese.

2 commenti: