Proprio nel New Yorker trovavo il mio esempio nel giornalista economico James Surowiecki, che seguivo regolarmente; ho imparato molto da lui e spesso mi basavo sui suoi articoli. Mi doveva essere sfuggito, all'epoca, l'articolo "No Work and No Play" sulle differenze tra Stati Uniti ed Europa del 28 novembre 2005, che ho letto in una serata di riposo. Basandosi su uno studio di Alberto Alesina, Edward Glaeser e Bruce Sacerdote, Suriowiecki sostiene che la disoccupazione in Europa si deve al fatto che, per i diritti dei lavoratori sostenuti con forza dai sindacati, in generale si lavora meno, mentre negli Stati Uniti si lavora di più e si guadagna di più e quindi è quello stesso disavanzo a produrre l'indotto che crea nuovi posti di lavoro.
Per esempio: in America si sta in ufficio dalla mattina alla sera, quindi non c'è tanto tempo per pulire la casa e lo si deve far fare a qualcun altro, che quindi lavora e viene pagato. Non c'è nemmeno tempo per cucinare, quindi alla fine si finisce spesso al ristorante, che si mantiene e paga i camerieri. Non c'è un vero congedo di maternità per badare ai figli appena nati, quindi bisogna affidarli a baby sitter e strutture: e sono posti di lavoro! Insomma, penso che si sia capito: sono i disagi sociali a fare PIL. Star bene al mondo significa non produrre ricchezza. I diritti dei lavoratori? La pace sociale? No: ormai si vive per il PIL, ovvero per farci uscire i soldi dalle tasche proprie verso le tasche di qualcun altro.
Chissà se nelle sue ricerche Surowiecki avesse mai incontrato il famoso discorso di Robert Kennedy alla University of Kansas del 18 marzo 1968, di cui do uno stralcio:
(...) Sembra che abbiamo barattato l'eccellenza della persona e i valori della comunità per il mero accumulo di beni materiali. Il nostro Prodotto Interno Lordo ora supera gli 800 miliardi di dollari l'anno, ma il PIL, se da esso si giudica l'America, il PIL comprende l'inquinamento dell'aria e la reclame delle sigarette e le ambulanze che sgombrano i morti in autostrada. Comprende le serrature speciali per le porte e le prigioni per chi le forza. Comprende la distruzione delle foreste e la perdita delle nostre meraviglie naturali per l'urbanizzazione selvaggia. Comprende il napalm e le testate nucleari e le macchine blindate per la polizia quando affronta le rivolte urbane. Comprende il fucile Whittman e il coltello Speck e i programmi televisivi che glorificano la violenza per vendere giocattoli ai bambini. E non comprende la salute dei bambini, la qualità della loro istruzione o la gioia nel giocare. Non comprende la bellezza della nostra poesia, o la forza dei nostri matrimoni, l'intelligenza del nostro dibattito pubblico o l'onestà dei nostri pubblici ufficiali. Non misura né il nostro acume né il nostro coraggio, né la saggezza né la preparazione, né la compassione né la devozione verso il nostro paese. E ci dice tutto dell'America, salvo il perché siamo fieri di essere americani. (leggi l'intero testo in inglese)
Neanche tre mesi dopo (tra il 4 e il 5 giugno 1968) Bob Kennedy venne ammazzato. Non penso che Surowiecki ignorasse il discorso, ma faceva (e fa) il giornalista: tutti parlano di PIL e parla di PIL anche lui, tanto per far vedere che sta al passo coi tempi (e non dice cose intelligenti: fa solo un passo, il passo dei tempi). È già tanto che non abbia detto che purtroppo il matrimonio limita fortemente l'indotto della prostituzione; ma in questo l'America è conservatrice e piccolo-borghese, a parole. Nei fatti, i festeggiamenti nuziali costano moltissimo (seimila dollari almeno); e comunque, dopo qualche anno il 50% dei matrimoni finisce in divorzi dolorosi e litigiosi, generando un indotto enorme di spese legali, notarili, immobiliari (ci vuole almeno una casa in più) e altro (psicologo, regali falsamente compensatori ai bimbi, vacanze di ripiego, ecc.). Con buona pace della prostituzione, il matrimonio conviene (agli altri).
A un furtivo scapolo (anche nel senso che "se l'è furtivamente scapolata...") come me viene in mente il vecchio Signor Aurelio, il padre di Titta in Amarcord di Fellini, quando in cantiere ascolta la poesia del poeta-muratore Calzinaz che finisce con: "Ma la mia casa, n'dov'è?". E il buon Aurelio (socialista, con tanto di fiocchetto da anarchico) risponde che non si può ottenere tutto subito e che: "Bisogna lavorare... e uno, lavorando... lavora... bisogna lavorare, ecco!" Sì, anche il padrone della ditta Aurelio non sa bene a che scopo lavorare; ha lavorato tanto, è arrivato quanto più in alto gli potesse permettere la sua condizione, ma non se la sente di garantire agli altri che anche a loro andrà così. Chissà che cosa lo rende tanto titubante... Lo sanno tutti quelli che, quattro anni dopo l'articolo di Surowiecki in questione, cioè nel 2009, hanno perso il lavoro e si sono detti, con tono tutt'altro che placido: "Bisogna lavorare..."